Alla ricerca di un volto umano

Parola tra noi
Luigi Giussani

L'unica risposta pratica e concreta alla situazione descritta nella meditazione di questa mattina, e che abbastanza sintomaticamente è stata definita «polverizzazione dell'io» - come la realtà vista attraverso una nube di polvere, dentro una nube di polvere, invece che una realtà che dovrebbe essere guardata alla luce del sole, dentro il sereno della luce - l'unica risposta è questa: esiste della gente, una compagnia di gente diversa; umana, come tutti noi, perciò con tutti i motivi di dispregio e i rari motivi di nobiltà che sentiamo gremire, far pesare o far respirare la nostra umanità; umana, come tutti noi, ma diversa, più propriamente «cambiata». Cambiata in termini insoliti, in modo imprevisto e in fondo in fondo invidiabile, almeno per certi aspetti con cui la vita è vista e vissuta. «Come fanno ad essere così?», ci sorprendiamo a sentire, più che a dire, nel nostro cuore. La cristianità li chiamerebbe santi. Ma non solo la cristianità: la gente semplice e del popolo, di fronte a qualche loro attenzione a bisogni sentiti, li chiama santi: «Come sono santi!». Ma voglio anche sottolineare una loro caratteristica che mi pare la più rivelatrice: è gente che ha del fegato. Non perché eroi. È un fegato senza grandeur: si chiama «testimonianza» questo avere del fegato! Questi uomini, cioè, hanno il fegato di dare giudizi e di proclamare valori profondamente differenti dalla mentalità comune. Una volta sentiti parlare, si avverte che sono più giusti, migliori - sotto certi aspetti, almeno - degli altri, più umani, paradossalmente più vicini a noi, più nostri, più vicini alla nostra umanità, a quella umanità normalmente ombrata e dimenticata.

Dico questo perché chi è qui - chiunque è qui -
ha fatto l'incontro con questa gente, poco o tanto, sfiorata appena o in
modo potente, scioccante. E poi, non si tratta mai di uno. Uno non resta
uno, ma testimonia una compagnia; uno, insomma, indica un cammino, una «strada».
E allora viene in mente quello che nel grande libro, il libro dell'ebreo
- perché «la salvezza viene dai giudei», ha detto Gesù(1): che non sia questa l'ultima ragione per cui facilmente chi ha il potere nel mondo li odia? - diceva il profeta Isaia, settecento anni prima di Cristo: «Ecco, dice Dio, faccio una cosa nuova».
Occorre sentire questa voce nel frastuono o nella nebbia polverosa descritta
stamattina: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora la faccio germogliare,
ma non ve ne accorgete? Aprirò nel vostro deserto una strada»(2).

Per capire bene questa sorprendente risposta - perché questa è
la risposta: se c'è una risposta, è questa; ogni altra risposta
aggrava la situazione definita stamattina, la conferma e l'aggrava - occorre
aggiungere a quanto è già stato detto quello che per me è
il giudizio sull'origine del dissesto, il dissesto che accade quando la
nube di quel polverone, di quell'infradicimento di tutto, quando l'ombra
della trascuratezza dell'io penetra in noi. Qual è la ragione per
cui la vostra terra, la nostra terra, si lascia invadere, non può
fermare questo polveroso dissolvimento di quell'ideale sognante - grande
cosa - che è l'umano? A mio avviso l'origine sta qui: la società
non ama voi, ma quello che può avere da voi, se è secondo
l'ideologia della sua convenienza - della convenienza al potere - o della
sua istintività. Per quanto possa sembrare strano, la cosa più
tragica è che tante volte - quante volte! - voi stessi accusate che
i vostri genitori, i vostri stessi genitori non amano voi, ma una idea che
si sono fatti di voi, specialmente circa l'immagine del vostro futuro, per
la fama e l'onore che possono avere da voi, dalle vostre performances, tra
gli amici o nella società e, soprattutto, per il comprensibile desiderio
di sicurezza e di beneficio da avere quando saranno vecchi.

Spunti di amore reale potete trovarne tra gli amici; raramente, ma tra
gli amici; e ancor più eccezionalmente - lo dico con amarezza, ma
con sicurezza di sfida - in un innamoramento. Tale amorosità, comunque
sia, ha come due poli, due punti-limite. Da una parte, un'ammirazione sconfinata
per qualcosa che si vede in voi e non avete fatto voi. Immaginatevi un ragazzo
veramente innamorato di una ragazza: ha un' ammirazione sconfinata per qualcosa
che vede in lei e che non ha fatto lei, non si è data lei - per esempio
la bellezza, nella freschezza di una certa età, che non dovete pensare
fissata al telone che riflette il quadro del domani. Dall'altra parte, una
compassione altrettanto sterminata per la sfortuna che avete (contesto,
circostanze non favorevoli, non buone), per la sfortuna che minaccia, favorita
da una debolezza che è nostra - questa sì che è nostra,
che è tua. Ammirazione e compassione. Un amore reale non può
non agitarsi tra queste due sponde.

Genitori e società benedicono tale debolezza perché se
ne servono, più che averne compassione, cioè più che
sentirne il dolore, per un sentore, per una percezione di inutilità
di ciò di cui hanno pur stima in voi. A che servirà quello
di cui hanno stima? Che ne sarà? Che cosa ne resterà? Una
giustificazione essi traggono, quindi, da questa aridità o fragilità;
anche da ciò che è più bello in voi, traggono una giustificazione
per possedervi, per trattenervi nella prudenza o cautela di cui essi si
pongono come misura: la misura che salva il salvabile!

Che sfortuna avete con una società così, incapace di valorizzare
la vostra umanità, impotente a valorizzare, schiava di ciò
che ha più fortuna di potere! «Che sfortuna avete con una società
così!», può dire la mamma, il nonno al bambino che cresce.
Ma che sfortuna avete anche con una famiglia così! Così piccola,
fine a se stessa, come il giardino dei conti Finzi Contini, mangiato, invaso, funzionalizzato dalla mentalità dominante, anche se imbalsamato dentro il largo giro di mura della casa.

E l'origine del dissesto è dunque là dove l'amore diventa
così impersonale e istintivo da tendere a diventare possesso, uso,
consumo, funzionalizzazione dell'altro a sé, alle proprie idee, alle
proprie immagini o ai propri bisogni, quale può essere la riscossa?
Se la risposta alla situazione di polverizzazione dell'io descritta stamattina
(di cui ho appena indicato l'origine) è soltanto quel fortunoso incontro
cui ho accennato aprendo il nostro dialogo, la riscossa viene fuori senza
pensarci, senza prevederla. Così viene fuori la figura di Cristo:
nell'orizzonte confuso, piatto e uniforme, nel grigiore della nostra storia
o nella figura del mondo, viene fuori la figura di Cristo.

«Si recò in una città chiamata
Naim, e facevano la strada con lui discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della
città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico
di madre vedova, e molta gente della città era con lei. Vedendola,
il Signore ne ebbe compassione e, fatto un passo, le disse: "Donna,
non piangere!"». Come «non piangere»? Ma si può
dire «non piangere» a una donna in quelle condizioni? Dietro
la bara del figlio, vedova, sola? Provate a immaginarvi che onda o che mare
di tenerezza doveva esserci in quell'uomo straniero che, vedendola, fa un
passo avanti, forse le mette una mano sulla spalla, e le dice: «Donna!
Donna, non piangere!». «E accostatosi, toccò la bara,
mentre i portatori si fermarono, e poi disse: "O giovane, dico a te:
alzati!". E il morto si levò a sedere e incominciò a
parlare, ed Egli lo diede alla madre»(3). Ma risuscitalo
subito! Accostati e risuscitalo! O, dal posto dove sei, grida che il morto
ritorni in vita! Che bisogno c'era di andare lì, fare un passo avanti
e dire: «Donna, non piangere!»? Ma piangeva lui! Qualcosa in
lui piangeva. In lui c'erano questa potenza e questa pietà, questa
affezione e tenerezza e questo dominio e potere sulla realtà!

Così, senza pensarci, viene fuori la figura di Cristo. Immaginatevi
i dodici amici suoi, al lume fioco delle fiaccole quella sera, il giovedì
dell'ultima cena: lui che parla e i dodici tesi ad ascoltarlo. E parla.
È il suo più lungo dialogo. A un certo punto, dice: «Senza
di me non potete fare nulla»(4). A un certo punto,
questa persona, questo uomo, viene fuori. E alla fine di quel lungo discorso,
prima che il suo cuore quasi si ritraesse e commosso parlasse direttamente
a colui che chiamava, con aria di così grande mistero, Padre, disse:
«Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Vi ho detto
queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia
piena»(5). È il contrario di quanto descritto
stamattina. Perché l'uomo è in quanto è possibile
per lui, in lui, la gioia. La gioia è il contesto compiuto, felice,
fresco, vibrante, d'ogni membra dell'uomo, d'ogni suo capello, con tutto
ciò che lo circonda, ogni fiore ed ogni filo d'erba. E aggiunse:
«Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia. Io ho vinto
il mondo»(6). Mancavano poche ore ad essere ammazzato.

Eppure, chi non riconosce questa presenza, chi annulla questa presenza
- perché non si può rimanere come prima incontrando una simile
presenza, anche vibrata nell'aria da una bocca che ne ripete i termini,
i contenuti dei discorsi, il racconto dei gesti, la sua fine, il suo inizio
(«Ne timeas»: tutte le volte che s'affaccia sulla scena del
testo scritto, dice: «Non temere»; è la prima parola
con cui l'annuncio di Lui entrò nel mondo); chi non riconosce questa
presenza è come se diventasse incapace di riconoscere qualsiasi cosa.
Allora sono uguali a zero suo padre, sua madre, la donna che ama, il figlio
che ha davanti agli occhi. Tutto - tutto! - si riconduce a nulla: è
il nichilismo di cui abbiamo sentito parlare stamattina.

È per un preconcetto che uno non riconosce questa presenza, è
sempre per un preconcetto: un preconcetto ideologico inerente al tipo di
mentalità cui si appartiene. Ma specifichiamo. Questo preconcetto
significa: giudizio "per plagio", perché si è plagiati
(dalla società, e quindi dalla famiglia, dalla scuola, dalla educazione),
o "per dissoluzione", per debolezza in cui tutto si corrompe.
L'uomo risulta dissolto nella sua debolezza, dissolto e confuso dalla sua
debolezza, per cui l'unica salvezza è la distrazione, non una distrazione
occasionale, ma patologicamente determinante. Plagio o distrazione: questa
è l'origine del preconcetto che annulla o tenta di annullare ai propri
occhi e nella propria coscienza questa presenza, la figura di Cristo.

Comunque, coloro che negano, per plagio o per distrazione, la figura
di Cristo sono condannati a ridurre la realtà così come traspare
imponente nell'esperienza, come consiste, si impone e traspare nell'esperienza,
sono condannati a ridurre questa realtà a niente. Cioè rinnegano
l'ampiezza del «cuore» dell'uomo: la realtà è
breve ed effimera, proprio come dice la parola «effimero» -
che dura un giorno, un'ora, un istante. L'anno scorso, poco prima degli
Esercizi Spirituali, uno di voi mi aveva raccontato di aver conosciuto una
studentessa danese venuta in Italia a studiare, la quale era stata colpita,
come lei stessa gli disse, dal modo con cui noi usavamo la parola «cuore».
Per lei «cuore» aveva sempre indicato qualcosa di assolutamente
privato, di così suo che non aveva niente in comune con gli altri:
era una intimità sua. Invece noi usavamo la parola «cuore»
in un altro modo: il «cuore» era come una cosa in comune, qualcosa
che si aveva in comune, che si ha in comune. L'ampiezza del cuore - le esigenze
che strutturano questo aspetto sintetico e profondo dell'uomo che la Bibbia
chiama «cuore»; non conosciamo una parola più adeguata
di questa che ci faccia sentire felici e disgraziati insieme - tutto giudica
lambendolo con la sua lingua di fuoco, senza sosta, senza tregua: sete di
verità, di bellezza, di bontà, di pienezza, di perfezione,
di soddisfazione, di felicità. Tanto è vero che questa parola
- «cuore» - è presa sul serio solo nel vocabolario a
noi noto, solo nel lessico stampato in Chiesa, oppure stampato in quella
pre-chiesa che potenzialmente è, per qualche mese almeno, il cuore
di una madre, di una donna che ha avuto un figlio.

Coloro che negano la presenza di Cristo rinnegano l'ampiezza del cuore
dell'uomo. Inoltre sono incapaci di ammettere veramente, tendono a rinnegare,
a non guardare in faccia e poi a rinnegare - come fanno taluni filosofi
che imperversano sulle colonne dei giornali in questi tempi - la parola
che indica il penetrare nella nostra esperienza di una cosa nuova che di
fatto arricchisce e precisa i ricordi che il tempo lascia e fa della nostra
vita un cammino: avvenimento. La parola avvenimento non la capiscono, che
cosa voglia dire avvenimento non possono capirlo. È questa la parola
che con furibonda ira negano. Anzi, più profondamente rinnegano che
nell'esperienza dell'uomo traspaia una realtà, un reale «reale».
Come Moravia, il quale diceva che l'esistenza non ha ragioni sufficienti
per farsi affermare - la realtà sarebbe «insufficiente»,
incapace di persuadere della sua effettiva esistenza -, così che
io non avrei ragioni sufficienti per dire: «Bevo un bicchier d'acqua».
Sono le tesi dei più grandi filosofi, espressivi della coscienza
sistematica e critica di oggi.

Chi nega Cristo, chi lo annulla - certo, resta tutto il problema, il
dramma, il rischio della fede in Lui o della dubbiezza e anche della negazione,
ma non teorica - innanzitutto riduce la realtà, riduce l'ampiezza
dell'esigenza del cuore e, quindi, della conoscenza umana e del destino
umano. Costoro negano l'avvenimento, che è la novità che entra
nella nostra vita, e negano che all'esperienza possa corrispondere un'esistenza
reale di qualcosa che nell'esperienza stessa si può vedere. Sono
costretti così anche a ridurre la forza della ragione. La forza della
ragione, infatti, sta tutta nella «categoria della possibilità»,
come noi siamo soliti dire. Non puoi negare ciò che è pensabile
come possibile, a meno che contraddica una evidenza inoppugnabile (come
è inoppugnabile l'evidenza che questo è un tavolo), di cui
la ragione descrive esaurientemente la fattura (la categoria della possibilità
sta, infatti, anche come sorgente originale della menzogna oltre che della
ricerca del vero). Dice sant'Agostino (è una frase che nei primi
anni della mia storia con i giovani del mio liceo citavo durante quasi tutte
le ore di scuola): «Quid fortius desiderat anima quam veritatem?».
«Che cosa più potentemente desidera il cuore dell'uomo, se
non il vero, se non la verità?». Ma «quid est veritas?»,
«che cosa è la verità?». «Vir qui adest»,
«un uomo che è presente», sperimentalmente presente,
come ridiremo dopo.

Comunque, Einstein era di questo parere. Mi ricordo, sul Corriere della
Sera, due giorni dopo la morte di Einstein, un lungo articolo di quattro
colonne del grande matematico Francesco Severi, il quale ricordava l'ultimo
suo dialogo avuto con Einstein il giorno prima che questi morisse. Di quel
lungo dialogo io ricordo questa frase di Einstein: «Chi non riconosce
l'insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato».
Perché per poter ricercare occorre la categoria della possibilità:
occorre ammettere la possibilità della scoperta, la possibilità
di concepire la scoperta da fare.

È quello che, in fondo, con la semplicità suggestiva del
poeta, diceva Montale alla fine di Prima del viaggio: «Un imprevisto
/ è la sola speranza»(7). Un imprevisto.
È Cristo l'imprevisto! Più imprevisto di una figura come quella
di Cristo! Potete mettere la parola che volete. «Un imprevisto è
la sola speranza»: questa è una definizione reale, sperimentabile.
Perché in una nostra qualsiasi esperienza, di ogni nostra possibile
esperienza, possiamo contare a uno a uno tutti i fattori: quando li abbiamo
contati tutti e l'ultimo combacia col primo, c'è sempre qualcosa
che manca, siamo rimandati «più in là», come diceva
l'altra, sempre in Satura, poesia di Montale(8).

«Un imprevisto/ è la sola speranza. Ma mi dicono/ ch'è
una stoltezza dirselo». Ecco il plagio, che diventa preconcetto:
«Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo». Questa restrizione
tragica della possibilità di constatare ciò che c'è
e della forza di riconoscere ciò che c'è (per riconoscere
occorre una forza, la quale non impone affatto, come oggetto di riconoscimento,
ciò che non c'è, né dilata, tanto imprudentemente quanto
gratuitamente, ciò che c'è: dilatare ciò che c'è
è sempre imprudente, tre minuti dopo puoi accorgertene, te ne accorgi);
questa restrizione tragica della possibilità di constatare ciò
che c'è e della forza di riconoscere ciò che c'è è
come una maledizione demoniaca sulla vita dell'uomo, sullo splendore della
natura, sulla grandezza dell'animo, che vengono così tranciati, recisi,
fino alla radice di ogni loro capacità e significato.

Tutto questo si può dire della possibilità di un riscatto.
La figura di Cristo si impone, comunque resti inevasa la domanda di fronte
alla Sua faccia, piena di tenerezza, che dice alla donna: «Donna,
non piangere!», oppure al Suo potere, che gli fa dire: «Sorgi,
risorgi, Lazzaro, vieni fuori!»(9). Nella mentalità
dominante che tende al rinnegamento, per il plagio che l'uno opera sull'altro
o per la distrazione cui la debolezza cede (una distrazione perciò
morbosa, patologica, permanente, determinante), vi è però
un'eccezione. Vi è un'eccezione in questa mentalità comune
negativa, dentro la folla che può essere definita dalla descrizione
di stamattina; vi è un'eccezione, come il legno che si vede ancora
verde e vivo prima che la fiamma lo riduca a cenere: si chiama gioventù.
Vi è un'eccezione nella società: i giovani. Ma come? Non ne
sono le vittime? Sì! Paradossalmente ne sono le vittime, ma rimangono
- sia pur vittime - un'eccezione. Essi vivono un bisogno, anche quando tutto
è negativo, circa la risposta da dare, le indicazioni da offrire;
essi vivono un bisogno, senza conoscerlo, senza che nessuno lo dica loro
o dia loro una speranza di fronte ad esso.

Vi dico: occorre che voi giovani vi rendiate conto che per il passato
sono documentabili e per il presente sono visibili figure che hanno la statura
dei vostri desideri. Guardate che razza di statura ha quest'uomo che si
chiamava Paolo.

«Perciò, investiti di questo ministero per la misericordia
che ci è stata usata, non ci perdiamo d'animo; al contrario, rifiutando
le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando
la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo
davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio. (...) Noi infatti non predichiamo
noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri
servitori per amore di Gesù. (...) Però noi abbiamo questo tesoro
in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria
viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non
schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati;
colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte
di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti
nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla
morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù
sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte,
ma in voi la vita. Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di
cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo
e perciò parliamo, convinti che Colui che ha risuscitato il Signore
Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà
accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché
la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi
l'inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se
anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova
di giorno in giorno (...). Non ricominciamo a raccomandarci a voi, ma è
solo per darvi occasione di vanto a nostro riguardo, perché abbiate
di che rispondere a coloro il cui vanto è esteriore e non nel cuore.
Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati,
è per voi. Poiché l'amore del Cristo ci strugge al pensiero
che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è
morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per
se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché
ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se
abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più
così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova;
le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove»(10).

Ma sentite queste testimonianze (prese tra quelle contenute nella causa
di canonizzazione) su san Riccardo Pampuri, vissuto 1800 anni dopo san Paolo.
«Io lo conobbi proprio in università. Per me fu un vero compagno
di studi. Pur estraniandosi dalle varie congreghe era sempre con e per noi.
(...) Ho in mente un fatto preciso. Lo rivedo, durante una sollevazione
studentesca, accostarsi ai cadaveri di due studenti uccisi, unico ad osare
di farlo. Pregò su di loro, ritirandosi poi indisturbato. I dimostranti
che erano ad una vicina finestra lo rispettarono, mentre spararono immediatamente
ad un altro che tentò di avvicinarsi. Non fu solo una prova di coraggio».
«Già. Che anni! In quel paesino sperduto nelle campagne della
Bassa milanese. Non aveva un attimo di sosta, anzi non si dava un attimo
di sosta. Potevano chiamarlo in qualsiasi ora del giorno o della notte.
Era l'uomo della carità. (...) Aveva istituito una mutua per la quale
gli iscritti pagavano due lire all'anno ed egli scalzando questo misero
compenso li visitava in qualsiasi momento. Siccome poi la mutua non forniva
le specialità, le forniva e pagava di sua tasca. Quando poi non pagava
i conti dei suoi ammalati dal panettiere, dal macellaio... Col risultato
che a metà del mese non avevamo più soldi e doveva chiederli
in prestito»(11).

Comunque, per completare l'accenno a questa figura, così evidentemente
diversa da quella di san Paolo, ma anch'essa così corrispondente
alla misura dei nostri desideri di uomini - come appariva quella di Paolo
là dove sbarcava per rivedere i cristiani e per parlare loro, da
Salonicco, a Rodi, alle coste dell'Africa, forse fino in Spagna, a Roma
-, per quanti di noi la figura di san Pampuri è molto più
precisata che neanche in questi ricordi, che pure spalancano una finestra
sulla potenza di questo giovanissimo e silenzioso medico della mutua; per
quanti di noi c'è qualcosa di ben più grande e immediato che
si può testimoniare: tutte le settimane, da qualche anno a questa
parte, da quando l'abbiamo invocato come aiuto a chi di noi sta male, o
ai genitori e ai familiari di tanti fra noi, tutte le settimane, dico, a
noi, almeno a noi, arrivano notizie precise di miracolo, di miracoli. Molti,
credo moltissimi, fra voi, possono dare qualche notizia in proposito.

Io ho sempre capito questo del miracolo: il miracolo è qualche
cosa, un avvenimento, qualcosa che accade, che uno non prevedeva, che uno
non può spiegarsi come, ma accade, è il contenuto di un avvenimento
che ti costringe a pensare a Dio. Ti costringe. Non necessariamente costringe
anche gli altri. La Chiesa, infatti, distingue il miracolo che ha un valore
privato - vale a dire che ha come scopo di richiamare te a cui capita (oppure:
capita a un tuo familiare, a un tuo amico, e anche a te giunge l'inesorabile
pensiero: Dio) - e il miracolo che è invece così mastodontico
nella sua possibilità di documentazione, che può essere detto
a tutti gli uomini di tutti i tempi, come è stato il miracolo - che
Tracce ha giustamente pubblicizzato, in seguito a conversazioni tra di
noi su queste cose -, accaduto a Pietro De Rudder, un miracolo veramente
imponente, senza possibilità di scappatoie(12).

Il miracolo è un avvenimento che mi richiama a Dio. Perché
Dio entra nella fattispecie breve, quasi impercettibile tanto è piccola,
di ciò che ci accade. Dio si è reso familiare all'uomo. Che
Dio sia diventato un uomo, Gesù Cristo, vuol dire che Dio si è
reso familiare all'uomo; il suo modo di rapportarsi alla mia vita, a quel
desiderio di felicità che creandomi mi ha dato, si esprime in una
familiarità sperimentabile: io vengo condotto, illuminato, sostenuto,
richiamato, perdonato, sono oggetto di misericordia, abbracciato come da
un padre e da una madre, come da una sposa o da uno sposo, come un amico
abbraccia l'amico del cuore. Il rapporto dell'uomo con Dio è il contrario
di quello che tutta la mentalità moderna immagina: grandi lavori
e grandi schemi per operazioni di scandaglio stellari, tentativi di ricognizione
nei bassifondi (o altifondi) dell'essere. No! Tu sei mio padre! Disse Gesù:
«Amico, con un bacio mi tradisci!»(13). Oppure:
«Strinse il bambino al proprio grembo e disse: "Guai a chi torce
un capello al più piccolo di questi bambini"»(14).
Guai a chi dà loro scandalo, ché nessuno ha riguardo per i
bambini.

Dio si è reso familiare. Il miracolo è un metodo familiare
di rapporto quotidiano di Dio con noi - il miracolo nel suo senso più
personale, privato, o nel suo senso più pubblico e grandioso. Perché
è tutto eccezionale il nostro rapporto con Dio. Se Egli è
il creatore, lo è di ogni istante: in ogni istante mi costruisce, in ogni istante sono fatto di Lui. Perciò, che questo appaia, tenda
ad apparire familiarmente - come il gesto d'amore della madre tende ad essere
realizzato ogni giorno tante volte: uno sguardo, una carezza, un bacio,
un «ciao» - questo è il metodo di rapporto di Dio con
noi.

Vorrei che rileggessimo anche questa testimonianza di Madre Teresa,
di cui tutti conosciamo le gesta, o la fama, almeno. «Ricordo di aver
raccolto un uomo dalla strada e di averlo portato nella nostra casa».
«E cosa disse quell'uomo?» - le chiese il giornalista. «Non
biascicò, non bestemmiò, disse soltanto: "Ho vissuto
sulla strada come un animale e sto per morire come un angelo, amato e curato".
Impiegammo tre ore a pulirlo, poi guardò le suore e disse: "Sorella,
sto per tornare alla casa di Dio" e morì. Non ho mai visto un
sorriso come quello sulla faccia di quest'uomo». «Perché
anche nei più grandi sacrifici sembra che non ci sia sforzo in voi?»
- domandò ancora il giornalista che la intervistava. Madre Teresa:
«È Gesù quello a cui facciamo tutto. Noi amiamo Gesù».

Ho detto: sono visibili nel presente figure che hanno una statura umana
degna dei migliori vostri desideri. Non è una proposta, è
un paragone dal quale riconoscete una Presenza. Dovete riconoscere queste
presenze. Non è più Gesù Cristo la sola presenza nella
lontananza della storia, che la fa sembrare come frutto di immaginazione,
ma è una presenza dieci anni dopo la sua morte, quarant'anni dopo
la sua morte, 1200 anni dopo, 1800 anni dopo la sua morte, fino a oggi,
Madre Teresa: parole e fatti, presenza umana impossibile a pensarsi. Così
pura, così coerente, così potente, rimanendo essa nella fragilità
mia: la tua umanità è come la mia, ma nella tua umanità
fiorisce qualcosa che viene da Qualcosa di più grande. Parole e fatti
impossibili. Questo è il miracolo. Presenze che sono un miracolo.

Leggo la lettera di una nostra amica universitaria, ricevuta all'inizio
di novembre. «Carissimo don Giussani, sono piena di letizia e di gratitudine:
l'imprevedibile è accaduto! È da oltre un anno che per curare
un tumore mi sottopongo settimanalmente alle chemioterapie. Nessun risultato,
anzi lenti peggioramenti con complicazioni sempre più gravi. Più
volte andai a Trivolzio, da san Riccardo Pampuri, per invocare la sua intercessione.
Il 2 novembre, giorno dei Morti, vengo convocata in ospedale; dopo una lunga
attesa si è liberata una camera: è imminente il trapianto
del midollo. Non sono tranquilla, so che è un'operazione difficile
e dolorosa e so anche che il mio organismo è molto debole e difficilmente
resisterà. Vidi il mio nome già sulla porta di una camera
sterile. Poco dopo le infermiere mi fecero infilare il camice e mi portarono
a tagliare i capelli: sembrava che tutto stesse per compiersi. Mi passarono
mille pensieri per la testa, ma solo uno prese forma: pregai il Signore
di rendermi partecipe della Sua Passione, di non sprecare nulla di me. Chiesi
di spendere la mia vita per lei, don Giussani, e per i miei amici. È
stato in quell'attimo che mi sorprese una calma, una pace sorprendente.
Avevo paura del dolore, della morte che in quella corsia di ospedale, tra
le camerette sterili, si intuisce anche senza vedere. Paura sì, tanta,
ma era ancora più forte il desiderio di implorare la Sua Grazia.
Desideravo vivere il mio annullamento non come disperazione, ma come sacrificio.
Ero completamente affidata, poteva accadere di me qualsiasi cosa. Ma ero
già salva, poiché in rapporto con l'Eterno. Ora che ci ripenso
vorrei poter rivivere tutta la mia vita come quel momento. Guardavo le mie
mani, le mie povere mani che si sarebbero riempite di tubicini e di aghi,
guardavo il volto di mio padre, sofferente ma dolce. Tutta la mattina e
il pomeriggio mi fecero esami di ogni genere, ripetendoli più volte.
Solo alla sera l'esito: non c'era bisogno né di dialisi, come si
era prospettato nelle settimane precedenti, né del trapianto. Il
midollo sorprendentemente aveva riniziato a produrre da solo. Era come
se il mio corpo, immobile e muto da più di un anno, all'improvviso
avesse ripreso a funzionare come prima. "Cose che capitano - dicono
i medici -. Le cure hanno fatto finalmente effetto". Non mi basta!
Non mi può bastare una risposta così. Li guardo sbalordita
e incredula. Tutto il dolore di una giornata, di un anno, e quello a venire,
perché le cure non sono ancora finite nonostante la bella notizia,
scompare. Ho incominciato a piangere, un pianto di liberazione, in cui
si scioglieva tutta la tensione, tutta la paura. E la certezza: Lui mi ama.
Ancora non capisco cosa possa essere successo, o almeno lo so, ma tremo
solamente a pensarlo. E sono inondata di gratitudine».

Voi credete nel miracolo, se è un fatto reale. Il più grande
miracolo - fatto reale - è che queste persone, nella storia dell'uomo
e nella nostra storia personale, sono rese oggetto di una iniziativa particolare,
inspiegabile dall'uomo. Ma una voce lo dice, la loro stessa voce: «Il
più grande miracolo - fatto reale - è che Egli mi ama».

In queste figure, che dimostrano la vivibilità felice, generosa
e feconda, carica di dedizione agli altri, limpida nel dire «pane
al pane e vino al vino», grandi come bambini - come san Paolo, così
grande, eppure così immediato come un bambino -, il miracolo che
si offre alla nostra considerazione, soprattutto nella sintesi grande di
una personalità opposta a quella che avete sentito descrivere stamattina,
che vince - vince! - tutto quello che avete sentito stamattina, che non
teme nulla, pur nell'apparente solitudine, il miracolo più grande
è che si è amati. È quello che ha sentito la nostra
amica - per questo ho letto la sua lettera, fra molte altre anche più
commoventi e drammatiche -: «Sono amata».

Siete amati. Questo è il messaggio che arriva nella vostra vita,
lo vogliate o non lo vogliate, lo comprendiate o non lo comprendiate, l'abbiate
già sperimentato o abbiate ancora da aspettare: che la vostra mendicanza
lo confermi, confermi la suggestiva risposta! Questo è Gesù
Cristo nella storia dell'uomo, l'inizio continuo di questo messaggio: «Siete
amati!». Cos'è la vita? Essere amati. E l'essere che abbiamo
addosso? Essere amati. E il destino? Essere amati. Questo è Gesù
Cristo.

Dio è diventato un uomo: vuol dire che il metodo di Dio con la
sua creatura, con voi, con me, con me e con voi, è un metodo - come
ho detto prima - di familiarità assoluta. Come vi rivolgete a vostra
madre e a vostro padre per quello di cui avete bisogno, così ci si
rivolge a Dio ogni giorno, per qualsiasi cosa di cui si abbia bisogno. E
sempre succede qualche cosa, qualcosa che non poteva succedere, qualcosa
che per forza ti richiama a un Altro, a qualcosa d'altro.

Miracolo, dunque. Si tratta di una realtà che io vedo, sento e
tocco, che sono chiamato a vivere - e sempre, presto o tardi, l'«eccessivo»,
l'eccezionale succede -, ma che non posso ridurre a quello che vedo, sento
e tocco, che mi rimanda per forza a qualcosa d'altro. Dovrei negare quella
realtà negando quel rimando. E se la riducessi, la annienterei.

L'esito del miracolo, di questo metodo normale che Dio ha con la sua
creatura (l'opposto del metodo che il mondo ha con qualunque uomo), è
un cambiamento.

Vorrei accennare, prima di finire, alle caratteristiche di questo cambiamento.
Innanzitutto - che impressione! -: è come trovare in un uomo eccezionale,
una presenza sconcertante che non ci si aspettava! E uno è vergognoso,
oppure è attirato.

Il miracolo - il rapporto di Dio con noi - è qualcosa che uno
vede, sente, tocca, è una realtà presente, è il contenuto
di una esperienza: uno che assiste, uno che guarda seriamente uno solo di
questi fatti travolge tutte le parole di tanti intellettuali e giornalisti
in voga i quali tendono, da una parte, a fare degli uomini, delle famiglie,
degli amici, dei compagni, gettate di cemento per le mura della loro fortezza
di potere, dall'altra parte, ad affermare che tutto è niente. Che
grande fantasia! Sì, ci vuole una fantasia da matti, è proprio
una fantasia da matti dire che tutto è niente: non c'è niente
di più contrario all'evidenza di cui l'uomo vive. Così s'attardano, queste voci del mondo, ad affermare che non hanno alcun senso, nessun valore,
le parole con cui si esprimono quella umanità, quella dedizione,
quella generosità, quell'altruismo, cioè quella possibilità
di essere umani in cui, invece, sta il sentore della responsabilità
di fronte a tutto. Come affiora nelle lettere di Emmanuel Mounier a sua
moglie. Di fronte alla figlia che a causa di una meningite è rimasta
idiota tutta la vita, egli ha vissuto responsabilmente, come risposta al
Mistero che fa tutte le cose, come risposta a Cristo, che in questo mistero
assicura la positività ultima; egli ha vissuto come responsabilità,
come risposta a Dio, ogni giorno, ogni ora che passava, con quella figlia
davanti agli occhi. Chiunque vi fosse di tutti i grandi politici, pensatori
e artisti di allora che passarono da casa sua, alla tavola imbandita il
posto d'onore era sempre della piccola idiota, perché essa rappresentava
il mistero del divino, piagato, ombrato, nascosto sotto una carne opaca,
una carne che non dava segno di vita. Come Mounier di fronte alla figlia
sentì la responsabilità del mondo, così noi siamo,
come lui, dominati dal rimorso per il rifiuto della santità, che
è risposta a Dio, vivere come risposta a Dio, al Mistero. «In
questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un'aria di evidenza, una familiarità
rassicurante, o, piuttosto, non è la parola giusta, impegnata: un
richiamo che non dipende più dalla fatalità. La guerra è
scoppiata, tanto da coinvolgerla nella grande miseria comune. Così
immerso, il peso è divenuto più lieve. La guerra ha offerto
a P. i momenti più atroci della solitudine e dell'angoscia. In settembre,
in aprile. Ma, nonostante questi momenti, essa ha finito per guarirci dalla
malattia di Françoise. Quanti innocenti straziati, quanti innocenti
calpestati! Questa piccola bambina immolata giorno per giorno è stata
forse la nostra vera presenza nell'orrore dei tempi. Non si può soltanto
scrivere libri. Bisogna pure che la vita ci stacchi ogni tanto dall'impostura
del pensiero, del pensiero che vive sulle azioni e i meriti altrui.

Ora che la minaccia di aprile si è allontanata, ora che sembra
si debba continuare a vivere insieme, Françoise, piccola mia, sentiamo
una nuova storia intervenire nel nostro dialogo: occorre resistere alle
forme facili della pace segnata dal destino, rimanere padre e madre, non
abbandonarti alla nostra rassegnazione, non abituarci alla tua assenza,
al tuo miracolo; donarti il tuo pane quotidiano di amore e di presenza,
continuare la preghiera che tu rappresenti, ravvivare la nostra ferita,
poiché questa ferita è la porta della presenza, restare con
te. Forse occorre invidiarci questa paternità incerta, questo dialogo
inespresso, più bello dei giochi infantili»(15).

È una umanità, quella di Mounier, che rende positivo anche
il dolore e la morte e rende funzione del mondo la coscienza della propria
esistenza. Una figura d'uomo eccezionale.

«Volete, dunque, la vita o la morte?». Così Dio si
rivolse agli ebrei del tempo di Mosè. Attraverso la grandezza di
questa loro guida, Dio rivolse tale domanda: «Volete la vita o la
morte?». Permettetemi di leggere questo breve brano del Deuteronomio,
cap. 30. «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte
e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio,
di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e
le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio
ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso. Ma
se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare
a prostrarti davanti ad altri dei e a servirli, io vi dichiaro oggi che
certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese di cui state per entrare
in possesso passando il Giordano. Prendo oggi a testimoni contro di voi
il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione
e la maledizione; scegli dunque la vita, obbedendo alla sua voce e tenendoti
unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità,
per poter così abitare sulla terra che il Signore ha giurato di dare
ai tuoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe».

La coscienza dell'uomo - che cosa sia l'uomo - è stata rivelata
alla storia del mondo dagli ebrei, a cui Dio ha per primi parlato. La coscienza
dell'uomo ha iniziato a comunicarsi alla storia degli uomini, di tutti gli
uomini, a partire dall'ebreo errante Abramo. C'è una risorsa umana
che in noi, in ognuno di noi, fa rivivere questa consapevolezza che Abramo
portò nel mondo: si chiama «memoria». Ci mettiamo insieme
per scoprire questa risorsa - per scoprire che cosa sia la memoria -, per
farla reagire a vantaggio nostro e altrui. Questo programma può riuscire
solo attraverso la compagnia in cui Cristo è riconosciuto presente.
Perché la «memoria» vuol dire: riconoscere Cristo come
presenza sperimentabile. Normalmente la legge di questa presenza sperimentabile
in cui Cristo si cela è la figura di quegli uomini eccezionali, di
cui abbiamo fatto esempio e richiamo.

La robusta influenza di questa memoria si opera in un cambiamento della
nostra vita. Cambia la nostra vita! In questa memoria che noi cerchiamo
di scoprire e di vivere insieme, avviene per forza un cambiamento della
nostra vita. Avviene un cambiamento nella nostra creatività, nella
nostra pazienza, nella nostra fedeltà, che obbliga la nostra ragione
a deridere l'ipotesi per cui la giustizia e la felicità, la pienezza
e la perfezione della vita siano solo una fantasia disperata. È disperato
chi le identifica con una fantasia, con un'immaginazione pietistica.

È una forza, questa memoria, che cambia ora - ora! -, ogni giorno:
la preghiera la rinnova, il vederci tra di noi compagni, amici, la rende
concreta. È una forza che agisce ogni giorno, ogni ora, ogni momento
che essa ritorni a galla, alla superficie della nostra coscienza.

Responsabilità verso lo scopo del vivere, necessità di
intervento nella foresta del bisogno umano, miracoli di esiti insperati,
imprevisti, imprevedibili, stupita gratitudine per una emergente pace: questi
sono gli esiti, i fatti, che anche da un punto di vista intensamente pragmatico,
cambiano il volto alle persone e alle cose che tale strada seguono: «Ho
aperto nel vostro deserto una strada». Se non altro, non ci lasciano
intimidite vittime della disumanità imperante. Ricordiamo che uno
non supera la solitudine solo perché ha gente intorno a sé:
uno non è solo quando è in rapporto con l'Infinito e, quindi,
con la totalità del tempo e dello spazio, con la totalità
della storia, cioè col significato del tempo e dello spazio, con
il significato della storia, con Te, o Dio, Signore, Padre, Cristo.

In un mondo e in una società dove tutto è calcolato, la
figura dell'uomo toccata dalla compagnia cristiana è spazio qualificato
dal miracolo del dono di sé. Questa è la formula che sintetizza
tutta l'etica, la morale dell'uomo - come debba comportarsi l'uomo -, la
legge della vita: il dono di sé in ogni istante. Perché questa
è la formula del rapporto tra l'uomo e l'Infinito - l'Infinito che
c'è in ogni istante, quell'Infinito che si addensa in ogni istante,
nel rapporto di ogni istante. Un nostro amico di Mosca - ricordate - ci
ha scritto della «densità dell'istante».

Allora, come si farà a capire queste cose in modo tale che qualcosa
si muova in noi, ci liberi dalla prigionìa di tutto ciò che
ci circonda, e possa esprimersi nella grande parola che sta di fronte al
Tu infinito, la parola «io»? L'unica cosa, infatti, che può
stare di fronte al Tu infinito, ergendosi in tutta la sua statura, è
l'io.

Quell'io piccolissimo che tanti filosofi dicono che è un nulla,
ma noi comprendiamo che è tutto e che riassume tutto nel dialogo
con Chi crea tutto, con Colui che si è fatto uomo ed è morto
per noi: è morto per me, ha dato se stesso per me. Il dono di sé
qualifica il Creatore e qualifica Dio fatto uomo, che muore per l'uomo.
Questa è la formula, dunque, del rapporto tra l'uomo e l'Infinito,
in ogni istante: il dono di sé.

Ma come, ripeto, questo potrà essere fattibile per noi, operabile
per noi? Ho parlato prima di compagnia: è con l'aiuto della compagnia,
che non sostituisce l'io, ma è creata dall'io che in qualche modo
si muove, diventa responsabile, cambia. L'ex Rettore dell'Università
di Monaco e attuale Rettore dell'Università Cattolica - unica in
Germania - di Eichstätt, professor Lobkowicz, disse ad alcuni di noi:
«Siete gli unici che io abbia conosciuto nel mondo per cui l'amicizia
è una virtù». Una compagnia diventa amicizia e una amicizia
diventa virtù in quanto sostiene la fragilità a vedere e riconoscere
il volto dell'essere, del vero e del bello, in quanto sostiene il cuore
nella sua fragilità di fronte al compimento, all'operare giusto,
alla giustizia, al bene, e in quanto sostiene la speranza: «Quanto
coraggio occorre per sostenere la speranza negli uomini!». Speranza
di fronte alla promessa che è la vita: sete di felicità, promessa
di felicità.

Questi santi, che abbiamo nominati come simbolo e segno di migliaia e
migliaia di altri grandi uomini, ci diano la grazia, compiano il miracolo
che tutti insieme, noi, abbiamo a realizzare l'esperienza di questa incomparabile
amicizia: un'amicizia che è virtù, cioè strumento per
il destino.

Ma provate a pensare: l'amicizia, strumento per il destino! Se non lo
è per un ragazzo che si innamora di una ragazza! Perché quel
rapporto si chiama amicizia, è la formula più acuta di amicizia.
Se non desideri il destino per la tua ragazza, se non desideri il destino
per il tuo ragazzo... ma che fate? cosa siete? Allora - capite - si apre
il varco, si spalanca quel vuoto che le parole di stamattina riempiono,
perché non siete degni di altre parole! Ma cosa fate insieme? Perché
vi mettete insieme? Che parola dici quando dici «tu»? quando
pronunci il nome della tua compagna, del tuo compagno? quando ci pensi,
quando l'immagini, quando immagini il domani? Cosa siete? Niente! Se non
è niente l'uomo in rapporto con la donna, allora capisco che tutto
è niente!

Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista! Perché è
grande - Dio, come è grande! - l'uomo, il giovane, il ragazzo quando
guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando
via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene
la commozione, gli viene - dicevamo una volta questa estate - un'adorazione.
Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha
fatti per Sé, cioè per la felicità, è simbolo
del nostro destino, che è la nostra felicità, che è
la bellezza, come ha capito Leopardi nell'inno Alla sua donna, che è
la verità, come aveva capito sant'Agostino, e si è convertito
per questo: Quid est veritas? Che cosa è la verità? Un uomo!
Vir qui adest. Un uomo che è qui presente, sperimentabile: direttamente
o nell'uomo che Egli cambia, nel santo, nell'uomo che cambia e, ti auguro,
nell'amico che hai di fianco. Auguro a te di essere amico così, innanzitutto
a colei con la quale intendi passare la vita.

Note
(1) Gv 4, 22.
(2 ) Is 43, 19.
(3) Lc 7, 11-17.
(4 ) Gv 15, 5.
(5) Cfr. Gv 15, 11.
(6 ) Gv 16, 33.
(7 ) E. Montale, «Prima del viaggio», in L'Opera in versi, Einaudi, Milano 1980, p.380.
(8 ) E. Montale, «L'agave su lo scoglio» in L'Opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p.70.
(9) Gv 11, 43.
(10) 2 Cor 4 e 5.
(11) Tracce, febbraio '95, p.50-53.
(12) Tracce, settembre '95, p.36-38.
(13) Cfr. Lc 22, 48.
(14) Cfr. Mt 18, 6.
(15) E. Mounier, Lettere sul dolore, BUR, Milano 1995, p.67-68.