In alto, <em>Cena in Emmaus</em>, 1600-01 ca., National <br>Gallery, Londra. Sopra, <em>Cena in Emmaus</em>, 1606 ca., <br>Pinacoteca di Brera, Milano.

CARAVAGGIO
Qualcosa che riaccade e inchioda lo sguardo

Fino al 29 marzo, una mostra alla Pinacoteca di Brera ospita due opere del pittore lombardo con lo stesso soggetto: la Cena in Emmaus. Dipinte a pochi anni di distanza l'una dall'altra, in realtà sembrano lontane decenni...
Giuseppe Frangi

Milano, metropolitana linea 3, stazione di Corvetto. Sulla banchina, aspettando il treno, tra la folla multicolore di ogni giorno, gli occhi cadono su un immenso cartellone che pubblicizza la mostra di Caravaggio aperta alla Pinacoteca di Brera. Sul cartellone, a grandissima scala, è riprodotta la Cena in Emmaus. È una sorpresa vederla, poterla scrutare, cogliere particolari che certamente riempiono di domande e di stupore noi spettatori casuali. C’è quella magnifica caraffa di ceramica, dietro cui spunta un calice di vino bianco. C’è il tavolo con il pasto magro e il pane dalla forma annodata. E c’è quell’uomo che brandisce i braccioli della sua stessa sedia, come in un soprassalto per un’inaudita sorpresa. Non è un quadro da effetti speciali: per questo riesce ad insinuarsi nel tran tran della normalissima attesa. È un istante come tutti gli altri, senza nulla di speciale. I due rudi albergatori alle spalle dei protagonisti guardano la scena con l’aria un po’ scettica. È uno sguardo evidentemente solcato da altri pensieri, proprio come quello dei viaggiatori che sulla banchina attendono l’arrivo del treno. Ma basta che un minimo di curiosità faccia breccia nelle nostre menti assorte e non puoi non chiederti che cosa stia accadendo a quel tavolo. Chi sia quell’uomo che ci sta di fronte, con quel volto attraversato da un filo di tristezza, eppure bellissimo; chi sia quell’uomo a cui senti d’impeto di voler immediatamente bene. E chi siano quei due che sobbalzano vedendolo semplicemente spezzare il pane. La taverna in cui tutto ciò sta accadendo è una stanza che precipita dietro quei personaggi immediatamente nel buio, proprio come il buio della galleria da cui tra poco sbucherà il treno. Non sembra davvero il palcoscenico allestito per un miracolo. È un luogo banale, dove senti la normalità scandita dal trascorrere monotono del tempo. Eppure…

Quattro quadri per Brera. Il quadro di cui stiamo parlando è una delle quattro opere che compongono la mostra che Brera ha voluto organizzare per aprire le celebrazioni dei suoi 200 anni di vita. C’è il Bacco giovanile arrivato con il suo magnifico cesto di frutta, dalla Galleria Borghese di Roma. C’è il Concerto arrivato dal Metropolitan di New York, una tela che negli ultimi anni ha attraversato tre volte l’Oceano, vittima di quel fenomeno che si chiama Caravaggio-mania (ma è un quadro dolcissimo, vitale, molto pasoliniano, al centro del quale spunta il suo volto, quello del pittore appena arrivato a Roma dalla sua Lombardia).
E poi ci sono soprattutto le due Cena in Emmaus: quella di Londra e quella della metropolitana, che a Brera è di casa, da quando venne acquisita nel 1939.
Tra l’una e l’altra opera ci sono circa cinque anni: quella di Londra è stata dipinta a cavallo del cambio di secolo, l’altra (quella milanese) dovrebbe essere il primo quadro dipinto nel 1606 dopo la fuga da Roma per il delitto commesso. Anche l’impostazione della composizione è molto simile.

Di Emmaus in Emmaus. In realtà le due Cene sembrano lontane decenni una dall’altra: infatti la biografia di Caravaggio vive di accelerazioni violente, di strappi implacabili.
Nella Cena di Londra, dipinta per Ciriaco Mattei nel 1601, siamo davanti a un Caravaggio olimpico, che dipinge quasi con un passo trionfante. Realista, ma anche teatrale, con quell’effetto riflettore che alza la tensione sulla scena, e quel cesto in bilico in primo piano, che è una spericolata prova di bravura. È un quadro, che ha un che di clamoroso nel suo dna, che intercetta l’impeto e lo stupore di quel momento, che sfonda il velo della normalità. Il discepolo che attraversa in profondità il quadro a braccia spalancate è un capolavoro che sullo slancio fa sobbalzare il cuore anche dell’ignaro osservatore di oggi.
Sei anni dopo invece la stessa stanza si è ammutolita. Il punto di vista del pittore è un po’ più ribassato. Il muro è tutto nero. Ogni riflettore è stato spento. L’atmosfera ha un che di mestizia. Si sente il suo tono polveroso, immutabile nel tempo. Caravaggio si è lasciato alle spalle ogni baldanzosità giovanile e si inoltra nell’ultima drammatica fase della sua vita. Non è più il tempo degli entusiasmi: è un Caravaggio che non fa più sconti, che non cerca più scorciatoie, che non accende più le tenebre della realtà ma le accetta, quasi le subisce. Persino la tavola si è immiserita, e le vivande sono ridotte all’essenziale. Quella stessa realtà che lui aveva incendiato di invenzioni nella galoppata dei suoi anni giovanili e della maturità, ora è una coltre tessuta di fatica, e di zone d’ombra difficilmente penetrabili. Il destino della storia dell’arte, lui, lo aveva cambiato: ora la partita è tutta con il proprio destino.

Tutti in coda. Fuori dalle porte di Brera la fila è permanente, come lo era alle porte di Palazzo Marino quando a dicembre era stata esposta la grande tavola con la Conversione di San Paolo. E quindi una domanda è d’obbligo: perché un artista di 400 anni fa, che ha dipinto una soggetto che oggi, in pieno analfabetismo religioso, poche persone riconoscono al primo colpo, riesce a conquistare un pubblico così vasto? C’è solo una risposta plausibile. Nella capacità di immaginazione e di immedesimazione sta la vera grandezza di Caravaggio. Per lui il realismo non è il fine, ma il mezzo per riportare tutto al presente. Al suo presente, ma per immediata e contagiosa conseguenza, anche al nostro presente. Caravaggio non si limita a rappresentare delle storie in cui pur crede. Non gli basta. Lui le dipinge come le avesse davanti agli occhi, tanto da essere in grado di seguirne tutti i minimi dinamismi. Così l’esito è sempre di una evidenza folgorante, di una nettezza e semplicità che non richiedono discorsi né spiegazioni. Non che lui non ci metta se stesso, tant’è che mentre nella Cena di Londra scorgiamo un Caravaggio spavaldo e corsaro, in quella di Milano ne ritroviamo uno ben più cupo e drammatico. Ma è proprio l’aver messo se stesso, l’aver calato la propria esperienza in quelle storie che rende tutto assolutamente affascinante e vero. Caravaggio non rievoca qualcosa. Lascia che quel qualcosa riaccada. Per questo la sua Cena inchioda il nostro sguardo sino a che il treno della metropolitana non apre le porte. E noi saliamo, con quei volti ancora stampati negli occhi.