Lepori, Colognesi e De Bortoli al Centro Culturale di Milano.

Domandare la vita è domandare l'infinito

Una serata con Ferruccio De Bortoli e padre Mauro-Giuseppe Lepori, per presentare "Si vive solo per morire?", il libro dell'Abate generale dei Cistercensi. Davanti a una «svolta epocale», una riflessione che riguarda tutti. Credenti e non
Fabrizio Sinisi

"La vita che domanda" è il titolo della serata organizzata dal Centro Culturale di Milano per presentare una nuova collana, A caccia di Dio (Cantagalli) e un nuovo libro, Si vive solo per morire?, di padre Mauro-Giuseppe Lepori, Abate generale dell’ordine dei Cistercensi.
Che la domanda in questione non sia un ozioso arrovellamento culturale ma qualcosa che sta al centro del vivere è evidente già nell’introduzione di Pigi Colognesi, membro anche del direttivo della collana, che racconta come questa è nata: «Non rispondendo a dei problemi specifici del nostro tempo, ma da una cena con padre Lepori, al Meeting di Rimini del 2015. Discutendo è stato evidente a tutti che si poteva fare qualcosa perché la domanda posta al centro di quel Meeting – di che è mancanza questa mancanza – venisse proposta nel mondo di oggi. La domanda di padre Lepori, che ci mosse, fu questa: “Chi interroga ancora il cuore, oggi?”. E noi abbiamo risposto: “Noi. Noi vogliamo essere di quelli che ripropongono un interrogativo al cuore umano”. I testi di questa collana intendono interrogare il lettore in modo coraggioso e totalizzante».

L’ospite della serata, Ferruccio De Bortoli, editorialista e già direttore del Corriere della Sera, non si sottrae agli interrogativi: «Una domanda come questa, “Si vive solo per morire?”, anche se si ha una fede debole e incerta come me, non si può evaderla cercando di vivere con intensità, quasi con bulimia, senza pensare al domani. È la caratteristica della vita odierna: non c’è passato, il futuro non esiste. La morte è come se fosse stata espulsa dalla realtà, esorcizzata, facciamo di tutto per nasconderla: ma questo ci sottrae all’urgenza necessaria davanti a cui padre Lepori ci mette di fronte. Ed è l’esempio con cui si apre questo libro, la domanda della piccola Maria Cristina, di undici anni, a sua madre: “A che serve studiare, fare i compiti, lavorare, se poi si deve morire?”. È una domanda come questa che ci mette nei pressi più veri di noi stessi». E rilancia, De Bortoli, nel modo più umano, con altre domande: «La gratuità di cui parla Lepori, questa gratuità in cui consiste la carità cristiana, non può essere diseducativa? Indurre al disvalore, alla pigrizia? La carità forse vince, alla fine vince sempre, ma non vince troppo tardi?». E aggiunge, quasi con amarezza: «Sì, è vero, nel mondo d’oggi qualsiasi domanda di senso viene censurata. E non so da chi di preciso, ma credo che fra molti che come me praticano il mestiere di giornalista ci sia stata e tuttora ci sia una certa complicità con questa censura». Poi De Bortoli si ferma davanti a una frase di Lepori su cui ha insistito sin dall’inizio: «“La vita bisogna cercarla anche quando non sembra essercene più”: in tanti anni non ho mai lavorato su una riflessione come questa. Non me ne sono mai accorto: sono stato un cronista disattento».

Padre Lepori ascolta tutto, guarda negli occhi e parla piano. I temi che pone sono di un’umanità bruciante. Ciò che colpisce di lui è come in un uomo così investito di una certezza, questa si esprima nell’accendersi di domande che non sedano la questione, ma la rilanciano: «C’è differenza tra domandare una vita e una vita che domanda?», si chiede: «C'è differenza tra un anelito di vita e una vita che si fa soggetto di una domanda? Domandare la vita non è forse un ripiegamento dell’uomo su di sé, su quello che già si ha e si teme di perdere? Non sappiamo cos’è la vita, ma sappiamo che è un bene che vogliamo difendere, e che le nostre mani non sanno proteggere. Per questo domandare la vita è l’alba della domanda dell’infinito. Perché quando ci si confronta con questo punto si decide se la vita ha un senso o non lo ha; se c’è un senso nella vita o la vita si riduce alla difesa di se stessa, a un’illusione».

In questa luce, anche la crisi - personale o storica - diventa una possibilità di tornare a interrogare il presente: «Tutte le nostre difficoltà sono il segno di un ridestarsi della vita che domanda la vita. Ma per domandare la verità la vita deve come staccarsi da se stessa, aprire le vele a un vento che ci porta al largo, là dove non vorremmo, dove non abbiamo progettato di andare. Ogni crisi ridesta infatti in noi la domanda: “Perché vivere, se si deve morire?”. Le crisi sono momenti storici, momenti della storia di una vita, in cui un individuo o un popolo possono accorgersi che la storia non è il senso di se stessa, che la storia è un cammino, e il senso di un cammino non è mai se stesso. La storia è una strada che va avanti, che ha senso solo se ha una direzione».

«Siamo davanti a una svolta epocale», aggiunge: «Ovvero, al conflitto tra le esigenze del cuore umano e l’inquinamento delle parole e delle immagini, che s’impongono a tutti, lasciando poco spazio alla domanda fondamentale. Ma se questa domanda è vera per me, è vera per chiunque. È questo il punto da cui tutto può ripartire. L’importante nella vita non è sopravvivere. Perché si può anche morire, ma che si muoia con questa speranza nel cuore: trasmettere alla libertà dell’altro un valore e un bene. È questa la lotta, il martirio di ciascuno di noi».