Tamoko Uemura viene lavata dalla madre.

«La fotografia è una piccola voce»

Fino al 4 dicembre nella nuova sede del Centro culturale di Milano, sessanta stampe originali del fotogiornalista americano. Un'occasione per ricapirne la poesia e la profondità. E mettere a fuoco perché una foto, se concepita bene, «talvolta funziona»
Luca Fiore

Quella offerta dal Centro culturale di Milano con la mostra di fotografie di W. Eugene Smith (1918–1978), è l’occasione per tornare a guardare l’opera di uno dei più importanti fotoreporter di sempre, ma soprattutto per rimettere a fuoco le ragioni della sua grandezza. Il titolo della mostra, “Usate la verità come pregiudizio”, ripete da oltre quarant’anni quale fosse la paradossale posizione culturale di questo testimone del Novecento. Fu lui stesso, infatti, a volerlo usare per la sua prima grande retrospettiva del 1970 al Jewish Museum di New York, ripreso poi quindici anni dopo dalla Fondazione Aperture per un grande libro tradotto in Italia da Jaca Book–Punto e Virgola (se ne fece una grande mostra al Meeting di Rimini del 1986).

In quello che suona più come un verso di una poesia che come una lezione di fotografia, Smith sembra dire che se proprio non è possibile avere uno sguardo senza immagini precostituite, conviene almeno desiderare che esse vengano plasmate su quanto di vero abbiamo visto.
Verità, cronaca, giornalismo, testimonianza, pregiudizio, ideologia, idealismo. Sono tutti termini che si sono intrecciati nel mai concluso dibattito sul ruolo della fotografia nell’ambito dell’informazione e del suo rapporto con l’opinione pubblica. Smith è come se attraversasse questa disputa proponendo una sua personalissima via fatta di poesia e coinvolgimento umano.

Fino al 4 dicembre, nella nuova sede del CmC in largo Corsia dei Servi, saranno esposte sessanta stampe originali (realizzate in camera oscura dallo stesso Smith) appartenenti alla collezione Collezione di HChristopher Luce di New York (la mostra è ideata da Camillo Fornasieri e curata da Enrica Viganò). Una selezione dei momenti più importanti della produzione del fotografo: le immagini della Seconda guerra mondiale, il servizio del 1948 sul “medico condotto”, l’indagine sulla Spagna rurale del 1951, il reportage sulla “levatrice”, l’incontro in Africa con il Dottor Schweitzer, il reportage da Pittsburgh e il grande saggio – il più famoso e commovente – sul villaggio giapponese di Minamata.

È proprio quest’ultimo episodio della sua carriera che mostra in tutta la sua forza la poetica e la profondità dell’impegno di Smith. Tra il 1971 e il 1974 il fotografo si trasferì con la moglie in questa località di mare dove un morbo misterioso rendeva storpie centinania di persone. La causa della malattia era attribuita all’inquinamento da mercurio della locale industria Chisso Chemical. Nei tre anni di lavoro Smith documenta la vita dei pescatori, le proteste, le riunioni con i responsabili dell’azienda sotto accusa. E anche la vita dei malati e delle persone che li accudivano. Tra questi c’è anche Tomoko Uemura assistita in tutto, ormai da anni, dalla madre. È lei la protagonista di uno degli scatti più intensi e commoventi di tutto il fotogiornalismo. Una luce lieve illumina la ragazzina che viene sorretta dalla madre mentre la immerge nell’acqua della vasca per il bagno. Una fotografia passata alla storia come la “Pietà del ventesimo secolo”.

È ricordando il lavoro a Minamata che Smith dirà, alla fine della sua carriera, parole di grande onestà circa il lavoro del fotogiornalista e che, solo apparentemente, sembrano contraddire quella vena massimalista del suo “Usate la verità come pregiudizio”: «La fotografia è una piccola voce, nel migliore dei casi. Tuttavia qualche volta – solo qualche volta – una fotografia o una serie di fotografie possono farci prendere coscienza di un avvenimento. Molto dipende dall’osservazione; alcuni possono trarre un’emozione capace di farli pensare. Alcuni – forse molti – fra di noi possono venir provocati a usare la ragione, a riportare sulla strada giusta qualcosa che era sbagliato e possono addirittura consacrarsi alla ricerca di una cura per una malattia. Altri possono forse provocare più comprensione e più compassione per quelle vite che sono estranee alle nostre. La fotografia è una piccola voce. È una voce importante nella mia vita, ma non l’unica. Io credo nella fotografia. Se è ben concepita, talvolta funziona».