Pasolini in una fotografia inedita della mostra.

Solo l'amare conta

Apre l'esposizione "Pasolini, il poeta che sfidò il nulla", realizzata dal Centro Culturale di Milano. Per mettere lo sguardo dentro la libertà di un uomo ferito dal mondo, a quarant'anni dalla sua morte (da "Tracce" di ottobre)
Fabrizio Sinisi

«Non c’è poro della mia carne dove non tremi questa gratitudine alla vita, questa nostalgia ancora troppo recente per dolere. (Amo il Friuli, amo i miei compagni, amo tutta la gioventù di questi borghi)».
Non si capirebbe davvero Pier Paolo Pasolini senza partire da un’esperienza affettiva. Nella sua opera emerge continuamente un’urgenza, che è poi forse il suo tratto più intenso e distintivo: una necessità d’amore non come puro sentimento, ma come luogo privilegiato della conoscenza. Chi legge Pasolini registra continuamente questo scarto: l’impossibilità di conoscere qualcosa senza amarla. Gran parte della sua poesia è una domanda d’amore come evento della ragione, come «avventura del vero»: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia // il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più» (Il pianto della scavatrice, 1956).

Bisogna che sia ora.
La mostra milanese in occasione del quarantennale della morte di Pasolini, a cura del Centro Culturale di Milano, tiene come linea guida proprio questo binomio di amore e conoscenza. Tutto ciò che in Pasolini è “impegno” - politico, sociale, artistico - è l’esito di quest’accento radicale: per amare e capire le cose, bisogna compromettersi totalmente con esse. E non basta che ciò avvenga nel passato, foss’anche solo un secondo fa: bisogna che sia ora. Se non è ora, «l’anima non cresce più».

Nato a Bologna nel 1922, Pasolini sta per laurearsi quando la guerra costringe la sua famiglia a sfollare a Casarsa, in Friuli, paese di sua madre. Ci rimane otto anni, durante i quali insegna, studia, scrive. Debutta con un libro, Poesie a Casarsa (in mostra si può vederne un esemplare della prima edizione numerata del 1942), che innamora il grande critico Gianfranco Contini. È forse il periodo più felice della sua vita: «Saggezza è meraviglia. / Un grido è la più vera / delle parole... Nulla / a se stesso somiglia».

Ma quell’apparente facilità della vita non tarda a rompersi. Una denuncia penale, nel 1950, costringe lui e sua madre a scappare a Roma: «In una casa senza tetto e senza intonaco, / una casa di poveri, all’estrema periferia, vicino a un carcere, / con un palmo di polvere d’estate, e la palude d’inverno» (Poeta delle ceneri, 1966). Di giorno, fa il supplente di scuola a Ciampino (tra gli alunni, anche il futuro scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, di cui la mostra riporta un frammento video); di notte studia, scrive, ma soprattutto scopre Roma: un pianeta immenso, vitale, sconosciuto. È una provocazione che apre una nuova storia, un nuovo stupore: «Quanta gioia in questa furia di capire!». Le ceneri di Gramsci, un libro del ’57, non fa che testimoniare l’evento di un uomo innamorato del mondo, che ne riceve tutto il dramma fino all’intimo del cuore: «Un’anima in me, che non era solo mia, / una piccola anima in quel mondo sconfinato, / cresceva, nutrita dall’allegria / di chi amava, anche se non riamato. / E tutto si illuminava, a questo amore. (...) In ogni pagina, in ogni riga / che scrivevo, / c’era quel fervore, quella presunzione, / quella gratitudine. (...) Mite, violento rivoluzionario // nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva. (...) Per quali strade il cuore / si trova pieno, perfetto anche in questa / mescolanza di beatitudine e dolore? // Un po’ di pace... E in te ridesta / è la guerra, è Dio».

«Manca sempre qualcosa».
Nel ’61 Pasolini diventa regista di cinema: gira il suo primo film, Accattone (che verrà proiettato, insieme al Vangelo, nei giorni d’apertura della mostra). È un modo di esprimersi che, pur senza abbandonare mai la scrittura, continuerà a praticare fino all’ultimo. La ragione del passaggio al cinema sta in una domanda, che Pasolini spiega così: «Il cinema, riproducendola, fa una perfetta descrizione semiologica della realtà. Il sistema di segni del cinema è in pratica lo stesso sistema di segni della realtà. Quindi la realtà è un linguaggio! Ma se la realtà parla, chi è che parla e con chi parla?».

La domanda diventa ancora più densa davanti ad alcuni fra i quadri, in mostra, di pittori cari a Pasolini: Rosai, De Pisis, Guttuso, Mafai. È la linea dei “realisti”: i pittori della cosa, dell’oggetto, che accade e quasi prorompe nella tela. Guardandoli, lo stile del cinema di Pasolini diventa immediatamente più chiaro: è questa infatti la linea della sua ispirazione. Quando Elio Ciol, in una delle fotografie inedite riportate nella mostra, lo ritrae accanto a una riproduzione della Crocifissione di Masaccio, coglie proprio questo nesso profondissimo: lo sguardo di Pasolini ha la sua radice in un realismo rivoluzionario proprio perché tradizionale: potente, pieno di commozione e quasi di tenerezza.

Nel ’64, gira il Vangelo secondo Matteo: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di Cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora “divina” è ai limiti della metaforicità, fino a essere idealmente una realtà. Inoltre per me la bellezza è sempre una “bellezza” morale, ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica. Il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentata nel Vangelo».

C’è sempre, in Pasolini, questa ferita: un’implicazione personale con le cose, fino al midollo di sé; e un senso d’incompiuto che quasi lo perseguita: come una fame - una solitudine: «Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, è volgare, / mai fu così volgare come in questa ansia, / questo «non avere Cristo» - una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine...». «Tutto è pronto per me», constata, «ma manca qualcosa» (Poesia in forma di rosa, 1964).

Negli anni Settanta, Pasolini avvia una collaborazione da editorialista per il Corriere della Sera. Inizia qui la sua nota battaglia di denuncia del nuovo “potere”. In cosa consiste questo nuovo potere? Lo riassume bene Massimo Borghesi nella video-intervista realizzata per la mostra: «Desacralizzazione. E uno dei sintomi di questa desacralizzazione è la scomparsa della felicità. Solitudine e infelicità». Eppure, si chiede, Pasolini, «non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?». Sempre in quegli anni, polemizzava con Italo Calvino: «Che cos’è infatti che rende attuabili - in concreto, nei gesti, nell’esecuzione - le stragi politiche dopo che sono state concepite? Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno imponente che è la nuova criminalità? È terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo. Al contrario di Calvino, io dunque penso che non bisogna più avere paura di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore» (Scritti corsari).

Il suo omicidio, le cui circostanze non sono ancora state del tutto chiarite, la notte del 2 novembre 1975, ha dato modo a tanti di inquadrare Pasolini come un autore “scomodo”, avversario dei “potenti”. Ma la radice del suo genio è più profonda. Come dice Giulio Sapelli nella bella video-intervista presente in mostra, la grandezza di Pasolini sta nell’essere «un uomo che ha sempre pensato alle cose senza mai pensare alle conseguenze. È questo che deve fare un intellettuale: non può vivere da cinico, dev’essere un uomo libero. Lui ha vissuto sempre da uomo libero».
Questa mostra è un tentativo di mettere lo sguardo dentro questa libertà. Una libertà che dà scandalo, e che ancora ci ferisce; la libertà di avere un cuore vivo, di una domanda di senso che coincide con il suo stesso essere umano: «C’è una grande Verità / ed è la sua ansia che non mi ha fatto dormire, / come un santo».


"Pasolini, il poeta che sfidò il nulla"
Mostra realizzata dal Centro Culturale di Milano con la collaborazione della Fondazione Ente Spettacolo.

Dal 28 ottobre al 14 novembre
Milano - via Porro Lambertenghi, 6
info: 02/86455162
www.centroculturaledimilano.it