Henri Matisse, <em>Icaro</em>, 1947 (part.).

Basta un bisturi per trovare l'anima?

L'uomo? «Un prodotto dell'evoluzione biologica». La sua grandezza? «Dipende solo dalla sua dimensione collettiva». Il biologo Edoardo Boncinelli nel suo nuovo saggio prova a negare l'esistenza di "un oltre". Senza riuscire a "farlo fuori" del tutto...
Roberto Colombo

Nella storia del pensiero, a tentare di far fuori l’anima ci hanno provato in tanti, da più di duemila anni. Ma nessuno sembra esserci riuscito. Tenace come la roccia in cui è scolpita la nostra vita, l’anima resiste ad ogni assalto di una ragione di corto respiro, dall’orizzonte angusto e prigioniera di sé stessa. Perché tanto astio contro l’anima, tanta veemenza dialettica? Il bersaglio è l’uomo, il nostro io, l’autocoscienza del cosmo e l’unico soggetto di libertà sulla terra, contro il quale la cultura che aspira all’egemonia, in secoli passati come oggi, si è scatenata per cercare di frammentarlo, distruggerlo. Per poter dominare l’uomo, “possederlo” (quale potere è più temibile di quello intellettuale?), bisogna ridurne la possente statura, tagliare le gambe al gigante dei viventi. Dissolvere l’anima nell’anonimato del mondo fisico, e scomporla in elementi cognitivi, emotivi e relazionali, senza un sostrato di inerenza, è l’obiettivo di questa strategia antica e nuova.
A materializzare l’anima ci aveva già pensato Epicuro, che la definiva, quasi atomizzandola, «un corpo sottile, sparso per tutto l’organismo, assai simile all’elemento ventoso, e avente una certa mescolanza di calore» (Lettera a Erodoto, III sec. a.C.). Con l’Illuminismo, La Mettrie griderà che «l'anima è solo un principio di movimento o una parte materiale sensibile del cervello» (L’uomo macchina, 1747). In tempi più recenti, i filosofi cederanno ai medici e agli psicologi la prima linea d’assalto all’anima.
La scuola chirurgica francese di metà Ottocento esprime l’aforisma: «Sotto il mio bisturi non ho mai trovato l'anima»,
per lasciare presto il campo agli psicologi sperimentalisti che sgretoleranno la concezione aristotelica della psicologia come “scienza dell’anima”, secondo la quale «i processi psichici sono considerati come fenomeni dai quali si debba dedurre l’esistenza di una sostanza metafisica, l’anima» (Wilhelm Wundt, Fondamenti di psicologia fisiologica, 1874).

Alla dissoluzione dell’anima come fondamento dell’io, sorgente del nostro essere unico, irripetibile, che entra in azione dentro ad ogni rapporto con la realtà, garante della libertà spalancata all’infinito in un rapporto singolare con il destino, vuole giungere oggi il biologo molecolare Edoardo Boncinelli, passando attraverso una lettura delle neuroscienze in chiave di psicologia evoluzionistica e collettivistica. Nel saggio Quel che resta dell’anima (Rizzoli, 2012), l’autore riconosce la vertiginosa condizione dell’uomo che ci «sorregge sospesi in una posizione unica sul “gran mar de l’essere”», ma arriva a negare ogni possibilità che la ragione ammetta l’esistenza in noi di un quid che trascende l’intreccio di geni, cellule, organismo e storia biologica e culturale: «L’uomo è insomma un prodotto dell’evoluzione biologica, […] la grandezza e l’unicità» del quale «sono indissolubilmente associate alla sua dimensione collettiva» (pp. 141-143). Non è il tempo della persona, ma quello della società che scandisce la storia individuale e di un popolo. Una lettura “politica” dell’esperienza umana è quella che Boncinelli propone, appellandosi ad Aristotele, non senza avergli prima negato la ragionevolezza dell’affermazione di un’anima spirituale che distingue l’“animale politico” da tutti gli altri.
Abbandonata l’affermazione (epistemologicamente azzardata) delle prime pagine – «Se la vita ha un’anima, questa risiede nella vigile presenza del suo genoma», l’informazione «portata dal Dna di ogni organismo» (p. 12) –, il volume si chiude con una vaga apertura al trascendente: solo «l’azione di un collettivo trascende l’individuo e la sua corporeità e potrebbe quindi adombrare alcuni tratti del concetto astratto di anima e magari di spirito, il possibile sostituto collettivo dell’idea di anima» (p. 142). Le citazioni di sant’Agostino poste a esergo dei capitoli non valgono a salvare il testo da una astrattezza rispetto all’esperienza personale che sola può “parlare” dell’animo umano e di quell’apertura alla realtà totale che ogni nostro gesto realizza in virtù di esso, esperienza vivissima e drammatica di domanda di senso ultimo della vita senza la quale le parole di Agostino restano inintelligibili.

Per comprendere l’uomo non possiamo partire dal passato né dal futuro (evoluzione biologica, sociale, culturale), ma dal presente. Come osserva lucidamente don Giussani, un «aspetto fondamentale dell'impegno dell'io, per scoprire i fattori di cui è costituito, è il valore del presente». E commentando san Tommaso che, citando Aristotele, afferma «Anima est quodammodo omnia» (Summa Theologiae, I, q. 14, a. 1; q. 16, a. 3), prosegue: «Lo spirito dell'uomo è in qualche modo tutto. Tanto più uno è persona, è uomo, quanto più abbraccia e vive nell'istante presente tutto ciò che l'ha preceduto e lo circonda» (Il senso religioso, cap. IV). L’anima è la forma della nostra vita, di ogni istante di essa, che rende possibile a ciascuno di noi di dire “io” in verità. Nessun dato empirico che le neuroscienze e altre discipline esibiscono può sottrarsi al paragone con ciò che io sono, con la mia esperienza elementare che tutto abbraccia: il passato, il presente e il futuro. Un paragone che solo una ragione scientifica aperta a cogliere tutti i fattori del reale è capace di sostenere, senza rinunciare alla categoria suprema della possibilità che il senso ultimo, definitivo di chi io sono si riveli a me, per libera decisione del Mistero.