Marco Bersanelli.

La fede, esperienza di una conoscenza

La frattura tra sapere e credere. Il rapporto tra la ragione e il dato. E un'evidenza imponente. Qualche giorno fa Marco Bersanelli è intervenuto alla Giornata di inizio anno di Madrid. Toccando un tema che ci riguarda tutti. Ecco il suo intervento
Marco Bersanelli

Questo tema della «divisione tra sapere e credere», che Nacho ha accennato, molti di voi l’hanno sentita quando Carrón l’ha menzionata agli Esercizi della Fraternità. Ed è interessante che questa formula «divisione fra il sapere e il credere» viene fuori da un dialogo tra alcuni dei più grandi scienziati del secolo scorso, un dialogo tra Heisenberg, Planck, Einstein e Pauli. Quattro dei più grandi uomini di scienza della storia. Heisenberg sintetizza così la questione, dice: «Le scienze naturali sono in un certo senso il modo con cui andiamo incontro al lato oggettivo della realtà. La fede religiosa, viceversa, è l’espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita». Heisenberg subito aggiunge: «Devo ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione, dubito che alla lunga delle comunità umane possano convivere con questa netta scissione tra sapere e credere». Quando Carrón ha citato questo episodio, mi ha colpito anche perché riguarda gente di scienza, ma soprattutto perché questa formula «separazione tra sapere e credere» dice bene di noi. Dice bene del nostro modo di sentire la realtà, di usare la nostra ragione. Sapere, perciò la conoscenza (si pensa) riguarda ciò che noi possiamo conoscere con il metodo scientifico. Quello che conosciamo è affidabile nella misura in cui il metodo con cui lo conosciamo si avvicina al metodo scientifico. La fede è invece, il regno, appunto, dei valori, di quello che il soggetto decide essere importante per sé in base a qualche sua opinione o sensibilità. Questa divisione non è solo una questione filosofica, riguarda il modo che noi abbiamo di trattare quello che abbiamo di più caro nella vita, cioè il modo in cui noi concepiamo e giudichiamo i rapporti ai quali siamo più legati: le persone a cui vogliamo bene, il lavoro, ciò che succede nel mondo, il giudizio su ciò che accade nella nostra vita. Riguarda anche il modo che noi abbiamo di trattare quell’incontro che, in qualche modo, ci fa essere qui oggi. Per molti di noi, per tutti noi in qualche modo, al di sopra di tutti gli interessi della vita, ci sta quell’incontro che ha reso grande la prospettiva della nostra esistenza. Ma questa separazione tra sapere e credere, questo indebolimento del nostro modo di conoscere ci mette in difficoltà anche con questo, con ciò che abbiamo di più caro nella nostra vita.

La prima cosa che vorrei dire, a questo riguardo, è che questa impostazione, per cui sapere e credere sono due mondi separati, non tiene. E non tiene neppure come descrizione della dinamica della ricerca scientifica. Anche nella scienza, per sapere, bisogna credere. Non basta raccogliere dei dati. Noi come prima cerchiamo di raccogliere dei dati della realtà, ma non basta registrare dei numeri, occorre dare un giudizio su ciò che questi numeri ci indicano. Il nostro satellite Planck, che Nacho prima menzionava, si trova adesso nel punto della sua orbita che era stato stabilito, a 1 milione e mezzo di km dalla terra, ed ogni secondo, ogni minuto che noi siamo qui a chiacchierare, invia verso la terra una grande quantità di dati, valanghe di dati che arrivano dallo spazio, che riguardano la intensità della luce primordiale del cosmo, che ci mostrano com’era l’universo appena nato, 14 miliardi di anni fa. Ma questi dati cosa sono per noi? Sono dei segni che indicano qualcosa in cui noi dobbiamo entrare, che dobbiamo leggere. Non c’è un automatismo fra dati e conoscenza. La conoscenza scientifica implica un soggetto umano che prende coscienza di un dato che ha davanti. Ci vuole un io che giudica. Anche quando un risultato è stato ottenuto, io devo crederlo.

Nel 1989 mi trovavo in Antartide, nel Polo sud, anche allora stavamo cercando di fare delle misure di questa luce primordiale, in un modo diverso da come li stiamo facendo adesso dallo spazio. Avevamo fatto delle osservazioni e raccolto dei dati, abbiamo fatto l’analisi di questi dati e il risultato che ci è venuto aveva un margine de incertezza molto piccolo. Questo era sorprendente perché ci aspettavamo un errore più grande. Quindi era una buona notizia, ma si trattava di capire se per caso non avessimo fatto qualche errore nella valutazione dell’incertezza. Abbiamo rifatto l’analisi in modi diversi e veniva fuori sempre questo risultato. Allora si trattava di decidere se eravamo pronti a pubblicare quello che avevamo trovato. Sono andato da George Smoot, il leader del nostro gruppo a Berkeley (un paio di anni fa vinse il Premio Nobel ed è venuto al Meeting di Rimini dove alcuni di voi l’hanno conosciuto). Gli ho mostrato l’analisi e gli ho detto: «Guarda, mi continua a venire questo risultato», e lui mi dice: «Adesso c’è una sola cosa che ti devi chiedere prima di pubblicare questi risultati: “Do you believe it?” Ci credi?». Perché nel nostro metodo noi continuamente sottomettiamo la ragione al dato, a quello che abbiamo davanti, ma alla fine sei tu che devi dire che cosa significa quel dato, c’è un uomo che deve dire questo. Il grande fisico, chimico e filosofo Michael Polanyi scrive: «Qualunque tentativo di rendere conto della scienza che non la descriva esplicitamente come qualcosa in cui crediamo è incompleto ed è una falsa pretesa. Sarebbe equivalente a pretendere che la scienza sia essenzialmente diversa da tutte le altre conoscenze umane e che sia superiore ad esse, e questo è falso. Le conoscenze scientifiche si pongono con validità universale per loro propria natura. Perciò, si devono adottare con la dovuta considerazione delle prove sperimentali, ma in fin dei conti, esse sono adesioni ultime sottoposte al nostro personale giudizio. Ad un certo punto a tutti gli scrupoli ulteriori dobbiamo rispondere, in ultima analisi, «perché credo che è così».

Quello che volevo dire quindi come prima cosa è che la conoscenza, anche la conoscenza scientifica, è un atto dell’io, è un atto della persona, è un incontro tra un soggetto e l’oggetto.
Questo è vero per la conoscenza scientifica, ed è vero a maggior ragione, o è vero allo stesso modo, per ogni conoscenza umana. È evidente che la scienza è un metodo di conoscenza potente, nel suo campo di azione, è «un grande dono che non comprendiamo né meritiamo - diceva Paul Wigner - il fatto che noi possiamo conoscere attraverso la scienza». Ma la scienza da sola, non è in grado di dire niente a riguardo e ciò che più attiene all’umano, è muta riguardo al senso ultimo, al destino, né può dire niente sul valore della singola persona. Di fatto uno può vivere benissimo senza aver studiato la scienza. Mia madre non ha studiato la scienza e può vivere benissimo, ma non si può vivere con la statura della vocazione dell’uomo senza cercare il senso della vita.

In questa mentalità per cui sapere e credere, conoscenza e fede, sono divise, separate, il credere è ridotto ad un atto irrazionale. A un puro sentimento, a uno sforzo di volontà, a un autoconvincimento riguardo a qualcosa. L’evidenza più chiara di questo è che spesso si parla di «credere» senza neanche domandarsi «a che cosa» si crede. In campo religioso si dice «sono credente», ma resta un modo di dire. Io me ne sono reso conto recentemente in una sessione di lavoro sul satellite Planck. Un mio collega, che aveva saputo qualcosa di me, ma mi conosce poco, superficialmente, si avvicina e mi dice: «Ma è vero che tu credi?». Sono rimasto un attimo sorpreso, e gli ho domandato: «A che cosa?». Allora lui era più sorpreso di me, e mi dice: «Sì, insomma, sei credente?». E io: «Credente in che?». Allora lui imbarazzatissimo dice la parola scandalosa: «Mah… in Dio?». E io gli dico: «Tu cosa intendi dire quando dici “Dio”?». A quel punto non sapeva più cosa dire, allora gli ho detto: «Pensaci e la prossima volta mi dici cosa volevi chiedermi». Cioè, si dice «credere» come se ciò in cui si crede non fosse reale. Se prima il rischio era affermare il dato senza il giudizio (pretesa del metodo scientifico di poter fare a meno del soggetto umano) qui è ancor peggio: si vuole «dare un giudizio senza il dato», si dice che si crede in qualche cosa, ma non si ha neanche la domanda di quale sia l’oggetto di questo credere. Prima dicevo che il dato senza il giudizio non è conoscenza (neanche in ambito scientifico). Adesso dico che c’è un modo di giudicare senza prendere in considerazione qual è il dato che si sta giudicando. È come uno che dice: «È una bella giornata, ma non ho neanche guardato fuori dalla finestra». Tra queste due posizioni, la seconda mi sembra quasi più assurda.

Ecco, quello che l’incontro con don Giussani ha introdotto nella mia vita è proprio questa evidenza, questa assoluta novità, sconvolgente novità. Cioè, che la fede appartiene alla categoria della conoscenza, non dell’irrazionale, e che la fede è un fattore decisivo del conoscere. L’inizio della fede è un fatto, qualcosa che io conosco nell’esperienza di un incontro. La fede è l’esperienza di una conoscenza. Giovanni e Andrea hanno fatto conoscenza con una persona che hanno visto davanti a loro, con una presenza eccezionale. Questo modo di accorgersi di quello che la fede è, cambia la vita.
La fede in questo senso, è il culmine della ragione, richiede tutto il nostro senso critico, tutta la nostra apertura razionale e affettiva, e questo è ciò a cui Carrón così insistentemente ci invita, ci sfida, con carità di padre. Perché non c’è carità più grande di quella di essere interpellati per poter entrare in rapporto con il nostro destino.

Voglio solo dire che per la mia esperienza conoscere vuol dire innanzitutto osservare qualcosa, raccogliere dei dati su una realtà fuori di noi, mettere alla prova un fenomeno o accogliere un dato imprevisto. A volte noi ci accorgiamo di cose che non cercavamo. Ciò che noi studiamo, il fondo cosmico di microonde, la luce che proviene dal fondo dell’universo, da oltre le galassie più distanti, è stata scoperta per caso. I due che l’avevano scoperta stavano cercando tutt’altro. A volte la realtà entra “a gamba tesa”, si fa vedere quando noi non la cercavamo. Ma conoscere non è soltanto raccogliere dati, richiede il nostro giudizio su ciò che abbiamo provato, su ciò che abbiamo visto. La conoscenza è sempre un incontro tra un soggetto e un oggetto, è sempre un avvenimento. Questo oggetto che noi abbiamo davanti è qualcosa di reale, è qualcosa di contemporaneo in qualche modo. Lo scorso agosto mi trovavo a Darmstadt, in Germania, stavamo analizzando i primi dati del satellite Planck. Dopo che è stato lanciato abbiamo fatto la calibrazione degli strumenti che è il momento più delicato di tutta la vicenda. C’erano tante cose che dovevamo capire, in tempi rapidi, perché il tempo stringe in quei casi. Mi ricordo che a un certo punto, quando era sorta una difficoltà ad interpretare alcuni dati, mi è capitato di avere una buona idea (e capita raramente! È vero!). Improvvisamente, con questa nuova idea, che adesso non è certo il caso di dettagliare, questa situazione di confusione aveva preso una forma diversa, era diventata semplice. Ero contentissimo, non riuscivo a dormire da quanto ero contento, ero soddisfatto, ero grato di questa piccola scoperta. Ma questo è ciò che l’esperienza ci indica: toccare un punto nuovo della realtà, un punto vero della realtà genera una soddisfazione. Ma quello di cui mi sono accorto è che questa gratitudine, questa percezione di me in quel momento assomigliava moltissimo, anzi era la stessa percezione di me che si genera quando, stando con voi o sentendo parlare don Giussani, sentendo parlare Carrón, sento parlare qualcuno che mi dice il vero su di me, sulla mia vita. Noi veramente scopriamo una presenza reale quando parliamo di Cristo. Accade come una continua scoperta. L’io è potenziato, diventa più se stesso. La realtà si semplifica, non perché i problemi sono cancellati, ma perché noi li possiamo vedere da un punto di vista più vero. Questo mi ha fatto pensare: «Ma guarda come è evidente che quella Presenza umana, quella grande Presenza che Giovanni e Andrea hanno conosciuto incontrandolo duemila anni fa, è reale, è contemporanea; altrimenti, come potrei dar ragione di questa continua novità che vedo, di questa continua scoperta, di questa realtà umana che tocco?».

La conoscenza vera cambia il soggetto che conosce, c’è qualcosa di me che non è più come prima. E se questo è vero per le cose piccole, per i particolari della scienza, figuriamoci per le cose che riguardano il destino. In ogni suo aspetto la conoscenza, approfondisce e rende più familiare l’oggetto che ho davanti, le galassie piuttosto che l’acqua, piuttosto che l’uomo. Cosa vuol dire che lo rende più familiare? Vuol dire che chiarisce, approfondisce, il nesso che quell’oggetto ha con la totalità, con il significato ultimo, e quindi attraverso quella cosa che ho visto, attraverso quel tramonto più bello che ho ammirato, io conosco qualcosa del Mistero ultimo.

Torniamo al caso citato. Noi riceviamo una valanga di dati dal nostro satellite e questi vengono raccolti in un computer che li immagazzina, a questo punto si pone la domanda: che cosa significano questi dati? Allora per poterli sintetizzare vengono analizzati, e costruiamo delle mappe dell’universo appena nato. Che cosa ci dicono queste mappe? Si può fare un’analisi statistica e cercare di estrarre i parametri fondamentali che governano, niente meno, che l’espansione dell’universo e ci possono dire qualcosa di chiaro a riguardo all’evoluzione dell’universo che dura da 14 miliardi di anni. Noi possiamo vedere quello che accadeva 14 miliardi di anni fa quando l’universo era ancora informe, iniziava a diversificarsi, a formare le strutture, le galassie; e via via che si capisce qualcosa, che si vede questo dispiegarsi del disegno cosmico, nasce un’ammirazione per quello che hai davanti, uno stupore per la bellezza, per l’ordine, per la fecondità dell’universo, per l’unità e per la varietà di quello che costituisce il tessuto del reale. Questo inizia a muovere qualcosa in te, uomo, che guardi, incomincia a cambiarti e nasce una domanda nuova di fronte a questo: «Da dove viene tutto questo?». Questa è una domanda della ragione: «Chi sei tu che fai tutto questo?». Così il percorso della conoscenza da qualunque parte cominci, se uno è fedele al cammino, s’imbatte in questa soglia del Mistero.

A volte mi sorprendo ad accorgermi di come spesso noi trattiamo il dato, i fatti eccezionali che abbiamo davanti, i «dati umani» che registriamo intorno a noi: trattiamo i testimoni che sono tra di noi, che ci indicano qualcosa, ci mostrano qualcosa di notevole, ed è come se guardassimo i dati di un esperimento senza domandarci il senso di quello che abbiamo trovato. Cioè, registriamo qualche cosa che ci colpisce, ma ci fermiamo lì. Carrón lo diceva quest’estate, e anche Nacho prima: «Il testimone non basta». Conoscere persone come Cleuza e Marcos Zerbini, conoscere tanti fra di noi che ci colpiscono (ci colpiscono vuol dire che c’è un dato notevole, che richiede una spiegazione, per la verità della loro umanità), questo ci commuove, comincia a muovere qualcosa. Ma quando veramente ti cambia? Quando noi non arrestiamo il cammino della conoscenza davanti a questi testimoni e ne seguiamo tutto lo sviluppo naturale fino in fondo. E questo quando avviene? Quando ci chiediamo da dove viene, che cosa fa sì che l’umanità di questa persona che conosco, che è un poveretto come me, sia così, che cosa rende ragione del suo cambiamento, che cosa rende ragione ultimamente del miracolo che ho davanti, dell’umano cambiato. E ancora in modo più radicale, elementare: che cosa rende ragione del mio esserci? Diceva Carrón: «Per don Giussani dire “io sono” con tutta la consapevolezza significa dire “io sono fatto”. Allora non dico “io sono” consapevolmente secondo la totalità della mia struttura di uomo, se non identificandolo con “io sono fatto”».

Non c’è niente di più evidente, e di più grande, di questa percezione di me per cui io non mi do da solo, io sono fatto da altro. Ma che cos’è questo io nell’universo? È quel punto dell’universo in cui l’universo diventa cosciente di sé. Quindi l’io di ciascuno di noi è il punto in cui il cosmo diventa coscienza di sé, è l’autocoscienza del cosmo. Quando un uomo dice coscientemente «io sono fatto, io sono tu che mi fai», quando un uomo dice così, questa è la voce dell’intera creazione che dice «io sono tu che mi fai».