Il gruppo di "Famiglie per l'accoglienza" in Romania.

I frutti di un'avventura

Venticinque anni fa decine di ragazzi vennero accolti da alcune famiglie in Italia e Svizzera, per qualche mese. Era da poco caduto il regime. Un incontro di "Famiglie per l'accoglienza" racconta cosa è accaduto da allora: «Un dono per tutti»
Violeta Barbu

«Quando giunse sul luogo Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito perché oggi mi devo fermare a casa tua”. In fretta scese e lo accolse pieno di gioia». Della gioia dell’accoglienza si è parlato in Romania nel nostro incontro del 13 e 14 giugno a Cluj Napoca e Timisoara, insieme agli amici Marco Mazzi e Alberto Pezzi.

Radunare persone, adulti e ragazzi, che, venticinque anni fa, si sono trovati imbarcati nell’avventura della ospitalità in Italia presso “Famiglie per l’accoglienza” può essere un momento di gioia, di ricordo o di nostalgia. Allora furono centinaia i ragazzi romeni ospitati in Italia e in Svizzera, nel Ticino, per quattro anni consecutivi. Tra questi, presenti all’incontro, c’è chi piange di commozione. Come Monica, giovane pianista, perché non può dimenticare i volti della famiglia che l’ha ospitata e con la quale ha mantenuto un legame fino a oggi. C’è chi ha preparato un elenco dei ragazzi, nome e cognome, con tutta la storia che si è svolta lungo questi anni. Maria di Turda, la moglie di uno dei nostri responsabili, Ioan Marcu, già andato in cielo, legge l’elenco. Racconta la storia di quei bambini, oggi adulti sparsi in tutte le parti del mondo, che hanno portato con loro l’esperienza indimenticabile di un gesto che gli ha dato il coraggio di partire, per essere accolti in un altro Paese.

C’è chi ringiovanisce di venticinque anni, come Ottavia, insegnante di Brasov, i cui occhi traboccano di gioia, mentre fa la sua testimonianza. L’inizio della Scuola di comunità nella sua città con i ragazzi ospitati in Italia è stato per lei l’irrompere di una novità rigenerante, mai pensata prima, oltre ogni attesa. E poi c’è chi racconta, con ironia, un cambiamento di cui non dice il nome, ma sappiamo tutti che si chiama conversione, una che non voleva andare in Italia, ma, infine per curiosità, ce l’ha fatta. Il segno della croce non sapeva farlo, andare a messa era un cosa strana, la vita che si faceva nella famiglia che la ospitava le sembrava così diversa dalla sua che neanche i tanti libri che aveva letto potevano aiutarla a capire da dove nasceva quella diversità. Adesso è la mamma adottiva di un ragazzo, accolto con lo stesso sguardo con il quale lei è stata guardata, con lo stesso cuore aperto. Ancora, c’è chi aveva riconosciuto subito in questa proposta il volto buono della gratuità, il vertice del dono commosso di sé. Madre di sei figli, Vittoria di Cluj è qui con la sua capacità di accogliere e con nelle parole una intensità di vita, che non diminuisce con il tempo. È qui per dare una risposta a sua figlia, Laetizia, che si chiede, con la solita concretezza che fa svanire tutte le nostalgie: «Qual è il senso dell’accoglienza? Perché valeva la pena partire, uscire dalla propria casa, dalla propria terra ed andare in un paese sconosciuto, in una famiglia che non era la tua, dove si parlava una lingua incomprensibile? Ma anche il perchè di chi ci ha accolto? Perché prendere con sé un ragazzo o una ragazza arrivati da lontano, da un Paese in sofferenza, con il passaporto attaccato al collo in una borsina verde? Perché chiedere ai propri figli di comportarsi come se quel ragazzo o quella ragazzina fossero un fratello o una sorella? Come capire perché è triste o lieto, perchè sta attaccato alla tv e, soprattutto, come spiegare a lui o a lei perche “da noi” certe cose si fanno in un certo modo? Ma chi siamo veramente “noi”?».

Nei giorni del nostro incontro di Cluj, ci siamo resi conto che l’esperienza che abbiamo vissuto chiedeva una risposta condivisa da tutti, sia per il passato sia per il presente, come per il futuro. “Tutti”: vuol dire quelli che hanno fatto l’esperienza di accogliere e, come noi, quella dell’essere accolti. È come un insieme che non deve essere diviso. Non ha senso raccontare una storia di volti e incontri solo con nostalgia e commozione, senza guardarla come un segno che rimanda al suo significato. Certo, la nostalgia è parte della nostra affettività umana e ci aiuta a riconoscere noi stessi come soggetto di una storia che non abbiamo deciso noi.

Man mano che le testimonianze avanzavano dentro il labirinto della memoria, Marco ci chiedeva con insistenza di stare alla verità delle cose. Tanto è vero che il prezzo della verità è uscire dallo stato d’animo nostalgico e guardare alla nostra storia come a un cammino segnato dal dono e dal cambiamento, senza perdere di vista l’ingenua capacità della nostra memoria.

Così, “dono” è stata la prima parola di un riconoscimento vero della presenza del Mistero in questa esperienza che andavamo raccontando. Dono gratuito, perché all’inizio di questa storia di accoglienza c’è stata la fiducia. Fiducia da parte dei genitori che mandavano i loro figli, affidandoli a persone sconosciute e lontane, dopo viaggi faticosi che comportavano decine di ore in pullman: nonostante i timori e le preoccupazioni reali, c’era qualcosa di più forte, che superava e trascinava la fragilità, già un segno che aldilà dello strappo, stava nascendo una speranza che veniva da un’altra fonte. E fiducia dalla parte di qui accoglieva, solo con la fede che c’è un Altro che compie quest’opera. Ovviamente, l’accoglienza come dono non dispone né di regole né di istruzioni per l’uso, ma parte da un affidarsi totale.

Si potrebbe pensare che il significato dell’accoglienza dei bambini romeni sia stato l’incremento del movimento di CL in Romania, aprendo subito l’ipotesi che tutto sia stato il progetto di qualcuno. Niente di più falso. Se proprio vogliamo guardare i numeri, sono rimasti fedeli alla Scuola di comunità pochi ragazzi rispetto alle centinaia accolti dalle famiglie. Di questi, alcuni erano presenti alla giornata: Hanna, Alexandru, Bianca, Ioana, Ruxandra, Maria… Mentre venivano raccontate anche le storie di quelli che si sono allontanati, diventava più chiaro per tutti noi che l’incontro vale per la vita e che, nel mistero della libertà, il cammino di tanti verso il compimento del destino non è quantificabile solo in base alla fedeltà a una proposta, ma l’incontro con il carisma lascia una traccia indelebile.

D’altro canto, quello che era proprio bello guardare era la consapevolezza della reciprocità del dono gratuito. Nell’accoglienza, senza imparare dall’altro, la tentazione di sostituirsi ai genitori sarebbe sempre rimasta in agguato. Perciò, chi ha vissuto l’accoglienza come un dono, si è subito accorto che c’e di mezzo la libertà dell’altro.

Si dice che gli adulti educatori sono quelli che cambiano i ragazzi. Almeno, i sociologi non hanno individuato un altro modo di definire la trasmissione dei valori e della fede. La nostra esperienza di accoglienza sconvolge questa teoria.

Una volta tornati a casa, i ragazzi hanno portato nelle loro famiglie di origine i gesti umili della fede quotidiana imparati nelle famiglie di accoglienza: la preghiera di ringraziamento prima di mangiare, l’uso ragionevole del tempo e dei soldi, l’aiuto nei lavori domestici, l’incontro comunionale con le famiglie degli amici con i quali avevano condiviso l’esperienza. Piccole cose, si potrebbe dire, ma grandi passi dell’educarsi a Cristo, che cambiano i rapporti. Seguire i ragazzi: questa fu una vera novità per i genitori, innanzitutto quando si parlava della felicità, parola sconosciuta nei regimi totalitari.

Chi ha ricevuto gratuitamente il dono di essere accolto e ha sperimentato il riconoscimento di sé in questo incontro non può vivere di un’idea di realtà, ma della realtà stessa. Non essendo una promessa, l’accoglienza è un fatto di vita che cambia e rende fecondo chi è stato toccato.

Le case-famiglia di accoglienza per i bambini seropositivi abbandonati furono il primo abbraccio della nostra comunità ad un bisogno lacerante e l’inizio del nostro seguire. L’accoglienza, in un inverno terribile, di una numerosa famiglia di zingari senza tetto nella piccola casa di Victoria ci ha interpellato con la sua novità. Dopo la perplessità iniziale, ci siamo resi conto che nel il suo coraggio c’era un passo da fare per tutti nelle guerra senza fine contro l’emarginazione e la discriminazione. Abbiamo guardato dove ci portava quel segno e ci siamo coinvolti nell’educazione della comunità rom, accogliendola. E poi Hanna e la sua famiglia. Con lei madre di due figli e di Marinela, ragazza adottata, presa da un istituto: «Non si poteva fare altro», dice Hanna che insieme a suo marito, Mihai, sta costruendo con difficoltà una casa di accoglienza per altri ragazzi.

Perché non si poteva fare altro? Perché Cristo passa sempre sulla nostra strada, camminando sulla via con i piedi dell’altro e dicendo sempre le stesse parole: «Scendi, non stare a guardare, vengo nella tua casa».