La realizzazione del mosaico.

Dietro a quei tasselli c'è una vita

Il seminario della Fraternità San Carlo ha un nuovo mosaico. Opera di uno dei più grandi maestri nel campo: padre Marko Rupnik. «Un aiuto ad avere davanti tutto ciò che siamo». Ecco come, nelle parole di alcuni seminaristi
Pietro Bongiolatti

Erano anni che i seminaristi della Fraternità San Carlo Borromeo lo sapevano. Nella cappella della casa di formazione a Roma sarebbe stato posato un mosaico. Ma non si sarebbero mai aspettati ciò che è nato da quattro giorni al fianco di padre Marko Rupnik e dei suoi aiutanti del Centro Aletti (atelier che ha abbellito i santuari di mezzo mondo, v. Tracce 2/2010) e dalla loro opera. Il 14 marzo, finalmente, c’è stata l’inaugurazione, l’occasione per ripensare a quello che hanno visto venir su davanti ai loro occhi.
«Appena tornavo dall’università correvo a vedere come procedeva il lavoro, senza nemmeno appoggiare la borsa», racconta Emanuele, che quest’anno diventerà diacono, per poi partire per Taipei. «Visto il mio passato di cantante d’opera, ero molto affascinato dal “dietro le quinte” del lavoro di padre Rupnik. Mi incuriosiva vedere la cura con cui ogni pietra veniva messa al suo posto, girata e rigirata fino a trovare la posizione giusta. Ho visto che c’è una vita dietro quelle pietre». La ricchezza di quei giorni di lavoro è stata proprio scoprire quella vita, perché i seminaristi hanno potuto conoscere gli artisti e, nel loro piccolo, dare il proprio contributo.
Ogni mattina padre Rupnik celebrava la messa per tutti e nell’omelia spiegava il senso del mosaico. «Ma non tutto», precisa Luca, anche lui prossimo all’ordinazione diaconale: «Ogni dettaglio è stato pensato, ma si svelerà nel nostro dialogo con Dio, negli anni. Come la vita». Già l’incontro con gli artisti è stato significativo: «Il primo giorno ho visto un cinese, un rumeno e altri stranieri trasportare delle figure preparate in laboratorio», racconta Alberto, madrileno, al primo anno a Roma. Il suo primo pensiero è stato: «I soliti italiani... Fanno fare il lavoro pesante agli immigrati». E invece s’è ricreduto: «Erano tutti collaboratori di Rupnik». Dalla teologa all’ex muratore, persone dalle storie più diverse che «testimoniavano un’unità simile alla nostra».
Da qui, un interesse crescente che s’è approfondito anche nei pranzi e nelle cene. E che ha portato i seminaristi a scoprire delle affinità. Una su tutte: «Nel suo lavoro Rupnik fa una vita quasi monacale», racconta Luca: «Fa una sorta di digiuno dell’immagine: dice che, per rappresentare la Madonna, non può avere la testa piena delle figure che si vedono sulle riviste o in tv». In fondo, non è molto diverso dallo spazio di silenzio che ogni seminarista s’impegna a trovare tutti i giorni: «Se ti vuoi fare riempire da Dio, devi lasciargli spazio». Ma non solo: «Sono missionari, come noi: ovunque vanno, portano sé stessi e la loro opera, lasciando questa a testimonianza di Dio. È quel che siamo chiamati a fare».
Alberto ha perfino chiesto di partecipare attivamente. E ha potuto posare due tesserine: «Sono poca cosa, sembrano uguali alle altre. Ma quel gesto per me significa partecipare alla Fraternità: io porto quello che posso, quello che sono». Come Abramo nel mosaico: è l’episodio delle querce di Mamre, mentre offre alla Trinità pane e latte. Al centro, Maria che abbraccia una pergamena srotolata dal cielo: il suo sì al Verbo. «A volte mi sorprendo a contemplare queste due figure, quando mi chiedo come farò, io che sono debole e peccatore. Ma Abramo e Maria mi fanno vedere quello che è già successo nella storia, attraverso la loro chiamata. Allora entro di più nel mistero della mia vocazione». Da quei giorni di lavoro a fine novembre il mosaico è un aiuto costante nella vita della comunità dei seminaristi, come ha detto don Carrón all’inaugurazione: «Questo mosaico è un aiuto alla memoria di questo Fatto, l’incontro con Cristo. Ci aiuta ad avere davanti tutto ciò che siamo. Ci riempie di silenzio, chiedendo la disponibilità all’agire di Dio». Luca se n’è accorto in alcune circostanze ben precise: «Innanzitutto è cambiato il modo di cantare: è più unito, meno sguaiato. Non per un’estetica: diventa chiaro ciò che fai. Già prima c’erano il celebrante e il Santissimo, ma ora anche le figure fanno compagnia». Pure nella preghiera personale: «Osservo molto la figura di Gesù, che indica la Chiesa tra Lui e Maria. È come se fosse la risposta alla domanda di Giovanni e Andrea: “Dove abiti?”. E mi chiedo, in vista dell’ordinazione: cosa vuol dire diventare come Lui?». O come dice Emanuele: «Tutta la mia vita, anche prima del seminario, è percorsa da un binomio: bellezza e grandezza. Questo mosaico me ne ha fatto accorgere una volta di più: io vado a Taipei per portare la bellezza che è vedere la grandezza della vita della Chiesa di cui faccio parte. È come portare i cinesi a vedere Assisi».