La domanda che non crolla

Una notte insonne, passata con il figlio sul divano e con la terra che trema. Tra la tentazione di nascondere la paura e quella di "chiudere" il terremoto in discorsi da geologi, si apre uno spiraglio: «Ma io a chi appartengo?»

La notte del 24 agosto, quando il terremoto è arrivato per la prima volta dopo quello aquilano, non ero nella mia città, Ascoli Piceno. Mi trovavo al Meeting di Rimini, dove trascorrevo una settimana di ferie. Di quella notte mi è rimasto in mente il tanto “bene gratuito” che si è sprigionato in città da parte di tutti. Non l’ho sentito per pura casualità. Soffro molto la paura del terremoto, perché rimango paralizzato e non riesco a muovermi. Ieri, quando è tornato a trovarci, la sua morsa ha preso anche me.

Dalle scosse del 2009 a L’Aquila, sono passati sette anni, quasi volati via se penso a ciò che ho vissuto dopo il 24 agosto. Da Rimini sono subito tornato a casa, perché mia moglie e i miei figli, che quella notte buia, senza luce e comunicazione, si trovavano soli in casa me l’avevano chiesto. Da quel giorno è nata una rete di rapporti che continua, a partire da un fatto naturale così drammatico, imprevedibile e difficile da gestire, ma che ci accomuna.

È questo lo stupore che alza sempre di più l’asticella della mia domanda nei confronti della fede. Come può Dio servirsi anche di un evento così drammatico per farmi chiedere cosa sono, ma, soprattutto, cosa desidero dalla realtà, seppure imprevedibile, drammatica e dolorosa. Ieri sera e anche stanotte mi era evidente. Ogni scossa, oltre che pietrificarmi, mi ha fatto commuovere e, oltre l’apnea, mi ha fatto domandare dove poggio la mia speranza? Dove decido di riporla? Dove prendo consistenza, dove riesco ad essere vero fino al fondo di me stesso, anche in un frangente così destabilizzante?

È davvero una sfida culturale su me stesso, perché la tentazione è quella di seppellire il sisma in fondo al mio cuore, rinchiuderlo nei discorsi da sismologi o geologi incalliti. Invece, potrà sembrare quasi assurdo, la natura di questa domanda di fronte alla terra che trema sotto i piedi, alle mura della casa che oscillano facendo cadere gli oggetti dagli scaffali e alla nottata trascorsa sul divano insieme a mio figlio sofferente, ha la stessa origine dello sguardo verso mia moglie, i figli, i colleghi, il vicino. O il referendum alle porte.
Questo sguardo, così carico di commozione, mi spinge a riconoscere che è proprio vero quello che dice Carrón nella "Pagina Uno" di Tracce di settembre: «Uno che è pieno di insicurezza, o che ha una paura e un’ansia esistenziale al fondo, dominante, cerca la sicurezza in cose che lui fa». Io, invece, scopro che, anche nella mia tentazione o nel mio immobilismo rispetto al terremoto, ripongo la speranza in Colui che tutto può.

È ciò che dicevo, ieri sera, a un caro amico che mi chiedeva come stavo dopo la seconda scossa, quella ci ha raggiunto durante la Scuola di comunità, portando via la corrente e facendo saltare il collegamento. Così, mi interrogava nella confusione di quel momento, fino a farmi chiedere: ma io a chi appartengo, o Cristo, se non a Te che tutto puoi?

Stefano, Ascoli Piceno