«Ho "perso il controllo" e mi sono ritrovata»

Ashley ha una vita perfetta ad Omaha, Nebraska. Ama l'ordine e le procedure. Poi le cose iniziano a non andare, sul lavoro e con il fidanzato. Ma una domanda riapre la partita: «Come si fa a vivere?»

Quando penso alla domanda «Come si fa a vivere?» quello che mi ha sostenuto nel corso di quest’anno, quello che ho imparato, è che io devo vivere la vita come una ipotesi. Ne abbiamo parlato molto alle vacanze di quest’anno. Io ho una tendenza a fare progetti; sono un tipo molto serioso, organizzato, che ama avere tutto sotto controllo. Le mie agende hanno colori in nuance, i miei film li metto in ordine alfabetico, tutto è molto organizzato e facile da trovare. È comprensibile, controllabile, risolvibile, gestibile, lo posso far funzionare. Nel passato per me è stato così, e pensavo che fosse tutto a posto. Cristo c’era, ma era quasi a lato, mentre le circostanze erano a volte un po’ troppo sovrastanti, ma per lo più riuscivo a tenerle sotto controllo. Beh, Lui mi ha aiutato… sapete, io gli chiedevo aiuto quando gli ho domandato dove andare al college, o dove andare alla scuola superiore, o dove vivere, dove andare a stare o a lavorare. Decisioni importanti, ma ogni giorno Lui era sempre più ai margini. Quando sono andata a Omaha, pensavo che questo trasferimento fosse un altro passo in una storia che filava per il meglio. Sono andata bene al college, ho preso la mia laurea e ho trovato il lavoro che desideravo. La mia vita era decollata e proseguiva lungo questo sentiero perfetto, con la speranza di trovare un marito, di vivere fino a ottant’anni e avere un sacco di bambini. Tu hai questi progetti, ed è tutto a posto. Beh, improvvisamente mi sono resa conto che non era tutto perfetto, che non posso controllare ogni cosa, che dovevo lasciare accadere un bel po’ di cose. È stato un lungo processo.

Un esempio è dato dal lavoro. Io sono un’audiologa, opero con persone che hanno problemi di udito, bambini, adulti e anche anziani. Anche qui, c’è una formula, uno schema che posso seguire, specialmente coi bambini. Li identifichiamo con un sistema di screening neonatale. Se presentano problemi di udito posso applicare loro un apparecchio acustico a uno-due mesi d’età; se posso intervenire tempestivamente tutto fila liscio, e possono imparare a parlare normalmente e vivere regolarmente. Questa è la formula. Ma ho imparato ben presto che tutto ciò accade molto raramente. Il mio primo anno di lavoro avevo tra i miei pazienti una bambina piccola che mi ha creato problemi. Quando le fu diagnosticata una mancanza di udito aveva otto mesi, che oggi è già piuttosto tardi, e cominciai col darle un apparecchio acustico, ma per tutto l’anno lei non voleva metterlo. Ne perse due paia, e non parlava. Aveva due anni e mezzo e non diceva una parola. Il mio lavoro è seguire la procedura, così ogni cosa che faccio ha come obiettivo il linguaggio, perché lei possa imparare a parlare. Mi sentivo sempre più frustrata, davvero seccata, cercavo di tenere sotto controllo la situazione e di dare alla mamma tutte le indicazioni per far tenere gli apparecchi a sua figlia e impedirle di perderli. Ma non funzionava, e io non mi fermavo a domandarmi il perché, perché quella era la mia procedura, punto e basta. In quel periodo frequentavo la Scuola di Comunità (avevo appena cominciato), e lì continuavano a proporre quest’idea che “le circostanze sono per te” e “che cosa ti fa vedere Cristo nelle circostanze?”, e che occorre guardare alla tua vita quotidiana e quello che ti accade. Ero talmente frustrata che mi sono detta: «Bene, proviamoci». Sono andata al lavoro, e ogni volta che lavoravo con quella famiglia provavo a dirmi: «Bene, Signore, che cosa significa questo per me nel rapporto con questa famiglia? Cosa devo fare con questa famiglia? Perché quello che so che devo fare, quello che so gestire, non funziona». A poco a poco ho saputo che il padre di quella bambina era in prigione. Avevano perso gli apparecchi acustici nel corso di due traslochi forzati perché erano stati sfrattati. La mamma non era venuta agli appuntamenti perché erano nel solo orario in cui il suo compagno poteva accompagnarla a ritirare cibo e ricette al WIC (Ufficio di assistenza per donne, giovani e bambini, Ndt). Quanto più venivo a sapere riguardo a questa bambina, tanto meno era riducibile ai miei schemi, alla mia formula – dovevo fare un passo oltre. Allora l’abbiamo messa in contatto con un avvocato e un programma prescolare. Le cose non si sono sistemate, ma andavano meglio. Ho cominciato a rendermi conto che questo sistema potrebbe funzionare per chiunque. Così ho cercato di guardare ogni paziente che incontravo sotto una nuova luce: «Che cosa ha in serbo per me questo paziente?», invece di «Come può adeguarsi alla mia formula così da sentire meglio?», o «Come posso fare perché tutto questo sia in linea con quello che mi è stato insegnato e con il modo in cui dovrebbe andare?». Adesso, invece mi chiedo: «Cosa posso fare per aiutarli, che sia secondo la mia formula o no? ». Non è facile, ho ancora dei casi problematici con i pazienti che ci stanno dietro, ma quello che ha fatto sparire la pressione su di me è il fatto che la mia identità non è ridotta a quello che posso fare per questi pazienti. Così, allentando un po’ la presa e lasciando che sia Dio a rivelare in quel momento che cosa mi riserva, la vita al lavoro è diventata meno stressante. Credo di essere diventato capace di aiutare meglio i pazienti. Abbiamo fatto grandi progressi, e va molto meglio.

Io pensavo di stare facendo le cose giuste, ma poi la mia vita personale mi ha posto davanti a un altro piccolo problema di controllo. Sono venuta a Omaha e ho incontrato il mio fidanzato Nate. Ho pensato: «Bene, ci siamo, questa è la strada, vivremo fino a ottant’anni, ogni cosa sarà perfetta e grande!». Ma Nate ha un problema cronico di salute, la fibrosi cistica. È una malattia che richiede trattamenti quotidiani, e bisogna essere rigorosi nella cura, nella dieta e nell’esercizio fisico. I pazienti con la fibrosi cistica hanno una aspettativa di vita ridotta rispetto al resto della popolazione adulta. Quando penso a questo, penso a John Waters, che ha parlato al New York Encounter. Ha parlato di come noi riduciamo la nostra realtà a quello che possiamo comprendere, ma quando lo facciamo eliminiamo il mistero. Ci facciamo carico di tutta la responsabilità senza avere nessuno dei poteri di Cristo. E questo è il modo con cui io stavo nei primi sei mesi con Nate. Non capivo niente, era al di là delle mie capacità di capire, fuori dal mio controllo. Conoscevo i possibili esiti della fibrosi cistica e non potevo cambiarli. Cercando di controllare tutto questo, di farmene carico senza nessuno dei poteri di Cristo, ho cominciato ad avere paura. Così ho rotto con Nate. Inizialmente pensavo che fosse la cosa giusta, pensavo di essere più felice. Ero meno stressata. Sono tornata alla mia routine, ai miei film in ordine alfabetico, e tutto era rientrato nella normalità. Ma col tempo mi sono resa conto che non ero davvero totalmente felice, che c’era qualcosa che mi mancava perché avevo perso di vista il cuore della questione. Così quando sono tornata a quello che la Scuola di Comunità mi aveva insegnato, e ho guardato alla mia esperienza quotidiana, a quello che Cristo mi aveva rivelato in essa, ho capito che in Nate c’era tutto. Io sono una che fa la lista, credeteci o meno, e ho fatto l’elenco di tutto quello che volevo in un marito, e Nate corrispondeva in tutto. Nel guardare alla nostra esperienza, lui corrispondeva a tutti i riferimenti che avevo, ma il quadro generale risultava completamente differente. Così ho dovuto guardare a queste esperienze quotidiane per rendermi conto che se avessi allentato la presa, se non avessi tentato di controllare le circostanze e avessi lasciato che Dio guidasse la vicenda, le cose avrebbero potuto andare meglio di quanto potessi sperare, anche se sembravano diverse da come le avevo previste o da come avrei voluto che andassero. Ci sono dentro ancora. Sono ancora una che si organizza, e ci sono ancora cose che devono cambiare, ma se vivo la mia vita con questa ipotesi di lavoro di un progetto, un obiettivo, un desiderio, ma con un distacco, so che, quando guardo alla mia esperienza quotidiana, Cristo può condurmi in una direzione completamente differente rispetto a quella che prevedevo o avevo in mente… e dunque migliore di quella che posso prevedere o desiderare.

Ashley, Omaha