NORCIA. «Così torniamo alla fonte»

Il monito della Basilica crollata. E il «voto di stabilità» mentre tutto crolla. Parla il priore dei monaci di Norcia, padre Benedict Nivakoff
Alessandra Stoppa

«Succisa virescit». Recisa alla base, è tornata a fiorire. Il motto benedettino è la promessa al fondo della prova che ha colpito la storia di tanti, di intere comunità, azzerando la vita nei paesi, nelle case, per strada, nei negozi, a scuola, al lavoro.
Il primo segno che le radici sono profonde è l’immagine che ha fatto il giro del mondo la mattina del 30 ottobre: uomini e donne in ginocchio, a mani giunte, nell’aria polverosa della piazza di fronte alla Basilica di San Benedetto a Norcia. Nel silenzio irreale, pregano Dio. La facciata è lì, dritta in piedi, come una quinta di teatro, e fa alzare lo sguardo. Dietro, è vuota. È venuto giù tutto. Il capolavoro del XIII secolo, costruito sul luogo in cui nel 480 è nato il Patrono d’Europa, si è sbriciolato.
Quella mattina anche padre Benedict Nivakoff, priore del monastero benedettino di Norcia, era lì in ginocchio. Mentre la terra continuava a tremare, si è messo in piazza a confessare. Newyorkese di 37 anni, da quindici vive l’intensa Regola che insegna ad «abitare se stessi», così vitale davanti al dolore di chi è stato strappato alla propria casa. A distanza di settimane è ancora dominato dallo stupore per il miracolo: «Non ci sono state vittime. Ci siamo sentiti protetti e preparati».
Lui e la sua comunità, quindici monaci quasi tutti stranieri, si erano spostati in rifugi di fortuna accanto a San Benedetto in Monte, il monastero nei boschi sopra Norcia. La Basilica e il monastero in città erano già danneggiati, e con dolore avevano dovuto lasciarli. Ma per loro tutto è segno: «Siamo chiamati a tornare alla fonte».

Cosa ha significato per lei mettersi in ginocchio?
Innanzitutto, è stata la supplica di protezione, per ogni persona. Non sapevamo ancora che non ci fossero morti né feriti... È stato davvero un miracolo. Ma mettersi in ginocchio è anche, e sempre, un gesto di penitenza. E questo è molto importante, soprattutto dopo una tragedia.

In che senso?

Il Signore mi ha salvato la vita, perché? Io che cosa devo cambiare? Questa è la prima domanda che mi faccio. E vale per ciascuna persona: quando accade una prova, qualsiasi essa sia, è la chance, la possibilità che Dio dà per cambiare vita. Nella prova, si trova anche la salvezza. Per quale motivo vivo? Se sono ancora qui, non è per diventare più cattivo, ma più pieno di carità. Quello che è avvenuto ci spinge a stare attenti, a guardare le cose in modo diverso. A convertirci.

Che cos’è questa conversione per voi, ora?
Per esempio, abbiamo deciso di alzarci prima, diciamo il mattutino alle 3.45, così possiamo vegliare di più per la gente. Ora che siamo al Monte e vediamo Norcia dall’alto, ogni secondo abbiamo più chiaro per chi è la nostra offerta. Per chi è il nostro digiuno (da metà settembre a Pasqua, consumano un solo pasto al giorno, ndr.). Comunque, la conversione personale è intimamente legata all’umiltà. E l’umiltà è intimamente unita alla verità. Questo vuol dire che, innanzitutto, devo vivere nella verità di chi sono. Non devo scappare, fuggire da ciò che sono.

Può spiegare meglio?
Non bisogna pensare né di essere migliori di quello che si è, né peggiori. Ma così come siamo. Questo realismo potrebbe sembrare una cosa ordinaria, banale, invece è molto più difficile di quanto sembri. Riconoscersi fino in fondo piccoli, peccatori, riconoscere quanto si è lontani da Dio, ma senza disperare, senza ripiegarsi su di sé.

Ora siete al Monastero in Monte: perché dice che è una chiamata a tornare alla fonte?
Se le nostre opere, come la presenza in città, la liturgia nella Basilica, i prodotti del lavoro, le iniziative culturali, cioè tutti i modi con cui trasmettiamo al mondo i frutti della nostra preghiera... se ora queste opere, per via del terremoto, sono ridotte, forse vuol dire che dobbiamo tornare alla sorgente della nostra vita spirituale, che è fatta di preghiera, contemplazione, silenzio, solitudine. Così, e solo così, saremo certi che riprenderà a sgorgare l’acqua per tutti. Siamo chiamati a essere sempre più consapevoli che la nostra vita non ci appartiene, vogliamo capire quale è la volontà di Dio per noi. Lui ha deviato il nostro cammino, cementandolo sulla montagna.

Che cosa vuol dire per voi vedere la Basilica distrutta?
È molto dura. È come vedere una bara. Io mentre la guardo vedo il giorno in cui ho indossato il vestito da novizio, poi quello della professione solenne, e l’ordinazione sacerdotale... Abbiamo ricevuto così tante espressioni di vicinanza, da tutto il mondo. Non ci aspettavamo un legame così forte con questo luogo. Ci fanno le condoglianze, come se avessimo un lutto in famiglia. Ho ripensato in questo tempo a Benedetto che, quando ebbe la visione della triplice distruzione del monastero di Montecassino, benché i suoi monaci fossero salvi, pianse, vedendo le mura crollare. Le sue lacrime sono le nostre. Nella liturgia si celebra anche il “compleanno” delle chiese, l’anniversario della loro Dedicazione, perché la Chiesa tratta gli edifici come i santi e questo dice dell’importanza che ha il “tempio”. È comprensibile soffrirne la perdita. Ma di certo l’essenziale è la vita che c’è dentro.

Il luogo è ancora più importante per chi, come voi, fa voto di stabilità.

Sì, certamente. È un amore al luogo del tutto particolare. Se ci si pensa, il voto di stabilità è una cosa molto radicale. Esistenzialmente, è una fedeltà: qualsiasi cosa accada, si sta. È come dovrebbe essere il matrimonio. Mentre oggi nel mondo tutto è all’opposto. La stabilità è il nocciolo di ciò che ci offre san Benedetto: ha creato e nutrito la cultura europea e ha permesso che si trasmettesse nei secoli, ma bisogna capire come lui e i suoi discepoli siano riusciti a fare questo. Si sono radicati. Non si sono piegati ai momenti di difficoltà, di qualsiasi genere: con i confratelli, con l’abate, con il clima, con la malattia... con il terremoto. Sono rimasti. E, soprattutto, sono sempre andati oltre le superficialità della giornata.

Lei, infatti, ha visto in quello che è accaduto un’occasione per tutta l’Europa. Qual è questo richiamo?
Spero che il terremoto, che ha ferito in qualche modo un luogo che è all’origine dell’Europa, offra una nuova finestra, una nuova visione proprio sulle sue origini, sulle sue «radici». Spesso si usa questa espressione, ma senza che ci dica più nulla. Benedetto è un santo che non corrisponde alle immagini immediate che abbiamo oggi, che non si può inquadrare, da cui non ci si può aspettare una frase chic, veloce, che ti spiega tutto. È molto profondo, e sottile. Allora si tratta di scoprirlo. E se l’Europa prova a conoscerlo, vuol dire che va oltre le superficialità. In tutte le sofferenze, c’è la possibilità di prepararsi per una nuova nascita.

Ora siamo in Avvento...
Per noi ora più che mai è il momento dell’attesa e dell’aratro. È il tempo di seminare per raccogliere, senza sapere quando. L’importante è che quando Norcia rinascerà, trovi una fede più forte e seria di oggi. Ricordiamo sempre che san Benedetto per tre anni è stato nello speco di Subiaco, da solo, lontano da tutti. Fino a quando Dio non ha deciso di farlo conoscere. I pastori della zona lo scambiavano per un animale, ma da lì è nato il primo monastero... Penso che per noi e per tutta la nostra gente questo è come il tempo di una donna che attende un figlio: per nove mesi prepara tutto bene per lui. Per noi non saranno mesi, ma anni. Però se si ha più tempo, ci si prepara meglio.