Natale a Norcia

La città di san Benedetto è il simbolo della prova di tanti, colpiti dal terremoto che non dà tregua al Centro Italia. «Ma anche Gesù è nato fuori casa, come noi». Così c’è chi spera e costruisce (prima della ricostruzione)

Migliaia e migliaia di scosse di un unico, continuo terremoto, che da tre mesi non dà tregua alla nostra gente dell’Umbria, delle Marche, fino al Lazio e all’Abruzzo. Pochi giorni fa è morta una donna che era rimasta ferita nella notte del 24 agosto. Per le cronache è la vittima 299. Il suo nome è Franca, era stata recuperata dalle macerie di un hotel di Amatrice, là dove si continua a lottare, mentre l’emergenza si è allargata ai tanti paesi e borghi sparsi tra i Monti Sibillini, distrutti dalla scossa del 26 ottobre e da quella del 30, la più forte mai registrata in Italia dai tempi dell’Irpinia, nel 1980.
Norcia è il simbolo della pena di tutti i ventiseimila sfollati che passeranno il Natale senza la loro casa. La città, svuotata, sembra un campo di battaglia. Il terremoto ha incrinato la spina dorsale appenninica e abbassato la terra di settanta centimetri, e ancora oggi lo sciame sismico non si arresta: notte e giorno, l’Istituto nazionale di geofisica registra grappoli di scosse.


La faccia di Annino. Ma chi può non se ne va da questa terra amata, che fa vivere e piangere. Anche se restare significa dormire in roulotte o nelle tende, mentre l’inverno avanza. La loro attesa del Natale è molto diversa da tutto ciò che si immaginavano, è fatta di «mattine a svegliarci insieme, metterci in fila per il bagno», come racconta Silvana Santucci, sfollata ad Ancarano: «Giornate passate a sistemare tutti gli aiuti che arrivano, che sono tantissimi». L’idea di festeggiare non è irreale per un un solo motivo: «Abbiamo perso tanto», dice Alessandra Rossi, di Norcia, «ma non abbiamo perso nemmeno un volto». Ha freddo e troppe poche ore di sonno alle spalle, però non molla la sua postazione tra le medicine: in un camper, che ha preso il posto della sua farmacia in centro. Aveva cinque anni quando c’è stato il terremoto del ’79 e ha visto suo padre rimboccarsi le maniche per lei: «Ora tocca a me». E ringrazia quanti, attraversando l’amarezza e la rabbia, «stanno facendo il possibile per noi: i pompieri, i volontari, la protezione civile, tutti...». Ma l’aiuto più grande per lei è quello di Annino. La faccia di Annino. È un vecchietto che conosce da quando è bambina: ogni mattina, quando lei apre il camper-farmacia, lui è lì. «Per dirmi “ciao”. Viene per salutarmi. Capisce? Non so spiegarlo. Ogni giorno, lui viene».
Le clarisse, trasferite a Trevi, soffrono molto la lontananza dal monastero, ma per loro il dono più grande di questo Natale è vedere quanto la gente abbia bisogno che tornino a Norcia: «Ci attendono, e non ce lo aspettavamo così tanto», racconta la badessa, madre Gabriella Babalini, che sa bene quanto la vita di clausura sia un punto interrogativo, spesso sentita come “inutile”. Dopo il terremoto, un carabiniere le ha detto: «Solo ora capisco quanto è importante la vostra presenza».
Don Luciano Avenati, norcino, oggi è parroco di Preci, Campi e Ancarano, dove «nessuno, ma proprio nessuno, è andato via». È letteralmente conquistato dalla sua gente: «Fin dal terremoto di agosto, si sono tutti impegnati, senza aspettare le istituzioni, per costruire delle strutture che oggi sono una benedizione». Quando è venuto il premier Renzi, dopo la scossa del 30 ottobre, lo hanno supplicato: «Lasciateci qui, fidatevi di noi». Don Luciano vive come tutti in roulotte, dopo aver “abitato” per un bel po’ nella sua auto. Gira tutti i giorni per la Valnerina e la Valle Castoriana, a trovare le persone: «La cosa più importante è la presenza: la “p” di prete per me si coniuga così». Come la visita a sorpresa del Papa, il 4 ottobre, le continue preghiere e telefonate del Santo Padre per dire che «è con noi», fino ad inviare gratis i “suoi” Vigili del Fuoco e una squadra di restauratori dei Musei Vaticani che si occuperanno del patrimonio artistico.


Debito di esistenza. David Lanzi, patriarca dell’omonima ditta che produce prosciutto di Norcia e altri salumi e formaggi, il 31 ottobre aveva già ripreso a lavorare. Ha vissuto il sisma nel 1972, nel ’79, nel ’97, e oggi. «Ci ho fatto il callo. Il terremoto sfascia, io riparto». Poche parole, al telefono, ché ha da fare: «Sarà dura. Ma non metto in cassa integrazione nessuno». Una cosa ripetono tutti: «Noi siamo gente di montagna». È la tempra di chi è educato a passo veloce, unita alla fede cristiana, che qui è tutt’uno con la storia dei luoghi e con la storia di ognuno. Ma c’è da imparare di nuovo tutto, per posare gli occhi su ciò che non passa. «Sa cosa le dico? Stavamo tutti come dei signori. Stavamo molto bene, con un buon turismo anche nella crisi. E credo non ce ne rendessimo conto», dice Giampaolo Stefanelli, sindaco di Norcia fino a due anni fa, che ha un figlio a Spoleto e un altro a Roma, «ma io sto qui. Penso di avere un debito. Un “debito di esistenza”, non so come dirlo. E lo voglio pagare».

Fuori casa. Don Avenati dice alla sua gente: «Il terremoto ci ha tolto le case, ma stiamo diventando una grande famiglia. Quando si vive l’individualismo, nell’emergenza si soffre di più». Allora dove ci si è trovati più scollati e disorientati, l’inarrestabile vescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, insieme alla Caritas, ai parroci e ai volontari, ha dato la priorità a ricreare luoghi comunitari. Ad Ancarano sono stati gli sfollati a volere che il tendone più grande fosse adibito a chiesa, non essendocene più. Si preparano al Natale così: «Gesù è nato fuori casa, come noi», continua don Avenati: «Ha condiviso in pieno la nostra situazione. Lo sentiamo ancora più salvatore della nostra vita. Così presente».