Un'altra strada

Un cammino iniziato nel 2009. Anni di incontri e convivenza tra ex terroristi della lotta armata e alcune vittime. Tutto nato dall’amicizia tra una giurista, un criminologo e un gesuita. La posta in gioco è alta. E la partita aperta...
Paola Bergamini

«Quando ho saputo che una ex appartenente alla lotta armata era sola in ospedale e che ad accudirla era andata una vittima ho pensato: “Qualcosa è davvero accaduto. Ma come è stato possibile?”». Ascolti questa frase ed è come se si riaccendesse il faro che illumina la strada da percorrere. Qualcosa che smuove la percezione del bene e del male, la concezione dell’errore e della giustizia. C’è in ballo una vertiginosa passione per l’uomo. Questo è il dialogo con Adolfo Ceretti, criminologo e docente nell’Università di Milano-Bicocca, coautore con Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale alla Cattolica di Milano, e il gesuita Guido Bertagna de Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto (il Saggiatore). Un testo in cui si ripercorre il cammino esistenziale, durato sette anni, che i tre autori, insieme ad altri protagonisti, hanno fatto con alcune vittime, e loro familiari, e un gruppo di responsabili della lotta armata che ha segnato l’Italia negli anni Settanta e Ottanta. Qualcosa che non era mai accaduto, impensabile e che non è relegabile alla parentesi storica ormai chiusa degli anni di piombo. 
Nelle oltre quattrocento pagine, c’è il racconto di un cammino iniziato nel 2009 a Milano e in un secondo tempo a Roma, innanzitutto con incontri personali con ex appartenenti alla lotta armata e con le vittime. Poi, piano piano, la strada si è come imposta in modo imprevisto e sorprendente. Si sono trovati a cadenza periodica. I rapporti si sono fatti più intensi fino al punto di decidere di trascorrere, ad esempio, più settimane di convivenza a San Giacomo di Entraque, in Piemonte, o svariati week-end nell’abbazia di Viboldone, alle porte di Milano. Coinvolti nomi famosi, come Maurizio Azzolini, Franco Bonisoli, Lina Evangelista, Luca Tarantelli, Manlio Milani, Alberto Franceschini e altri più nell’ombra. Nel tempo il numero è aumentato, qualcuno ha lasciato. La posta in gioco è alta e la partita non è ancora chiusa.

Giustizia riparativa. «Sette anni coinvolgenti, forti», rompe il ghiaccio Ceretti. «Tante persone - alla fine eravamo circa sessanta - hanno fatto questo pezzo di strada con noi. Penso al cardinale Carlo Maria Martini, al giudice Gherardo Colombo, ai giovani studenti che ci hanno affiancato. Eravamo quasi una famiglia allargata. Impossibile a pensarci prima».
Ma la nascita di questo Gruppo (maiuscolo, perché un altro nome non l’hanno trovato) è innanzitutto la storia di amicizia tra i tre autori e di qualcosa in più che piano piano prende consistenza.
Nel 1995, Ceretti, allora giudice al Tribunale per i minorenni di Milano, attraverso Federico Stella, docente di Diritto penale, conosce la Mazzucato. Entrambi, per strade differenti, stanno approfondendo la possibilità di percorsi di giustizia non solo penale. È il concetto di giustizia riparativa - allora ancora abbastanza sconosciuto - che aggiunge al classico «chi sbaglia paga» una sfumatura diversa e strade tutte da inventare: percorsi in cui vittima e colpevole, attraverso l’aiuto di altre persone, si incontrano e insieme ricercano motivazioni e risoluzione al danno, al dolore che il reato ha generato. Un cammino comune, insomma. Ma un passo per volta.
L’amicizia fra i due confluisce nel 1998 nella creazione del primo ufficio di mediazione penale in Lombardia per adolescenti “in conflitto con la legge”. È un primo passo. Una sera, Ceretti, alla presentazione di un libro al Centro culturale San Fedele, conosce padre Guido. C’è una sintonia immediata, tanto da fargli conoscere la Mazzucato. Racconta: «È stato un cortocircuito. Tutti e tre eravamo convinti che la parola giustizia ha delle potenzialità nascoste non ascrivibili alla sola giustizia penale, che sostanzialmente lega il reato alla pena».
Spinti da questo desiderio di approfondire il tema, organizzano convegni. In uno di questi incontri, parenti delle vittime israeliane e palestinesi raccontano la loro esperienza di convivenza quotidiana. Al termine, li avvicina un uomo: «Ho fatto parte della lotta armata. Ho pagato il mio debito, ma dentro di me rimangono tante domande sul male che ho inferto, una confusione». Nel frattempo, per motivi diversi, ciascuno di loro ha rapporti con ex terroristi o vittime della lotta armata. «Erano tutte persone che avevano fatto percorsi individuali e anche collettivi, ma nei propri mondi: ex con ex, vittime con vittime. Le loro strade non si erano mai incrociate. Eppure qualcosa mancava a entrambi questi mondi. Qualcosa per poter tornare a... vivere». Da qui la scintilla da cui è nata la proposta di incontrarsi, insieme a loro.
«Così è iniziato il nostro percorso di giustizia riparativa, avendo come punto di riferimento l’esperienza fatta in Sudafrica dopo l’apartheid. È un cammino che viaggia a margine della giustizia ordinaria, la quale continua il suo iter procedurale. Non è in alternativa ad essa. Non è un aut aut, bensì un et et». Per le vittime la domanda, che arriva fino quasi alla paranoia, rimane, certamente anche dopo che una lunga detenzione è stata scontata: «Perché hai scelto la violenza come strumento per realizzare i tuoi ideali? Perché hai attaccato il corpo di mio padre, il mio familiare?». E per l’ex: «Perché ho ancora dentro di me questi fantasmi, ora che ho scontato la pena?».
Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Br, scrive: «È come avere dentro un elastico. Si va avanti, si cresce, si invecchia. Si ha una vita professionale, sociale, affettiva. Ma non si è interi. Qualcosa di importante di sé è fermo a quei fatti. L’elastico si è allungato e ci ha lasciato la possibilità di arrivare fino a oggi, ma a ogni istante un’immagine, un pensiero, un profumo, un luogo possono far scattare l’elastico e riportare istantaneamente indietro. Bisogna sciogliere l’elastico, delicatamente, senza perdere nulla, né di ieri né di oggi. Bisogna ricordare perché lo si vuole, per amore».
Incontro dopo incontro, in una partecipazione a volte drammatica, iniziano a raccontarsi attraverso quello che nel Gruppo è stato definito “uno sguardo strabico”, ossia il tentativo di mettere a fuoco il passato per guardarlo con lo sguardo non di ieri, ma di oggi. Spiega Ceretti: «Via via c’è stata una presa di consapevolezza che non era solo a livello razionale, ma riguardava le passioni, le emozioni vissute a livello corporeo da parte di chi il male lo aveva procurato e da parte di chi lo aveva subìto. Sedersi uno accanto all’altro, chiedere, stringersi la mano: nessun gesto era scontato. Per tutti c’era la volontà, il desiderio di uscire da quello che definirei lo “sguardo della Medusa”, da un’identità che immobilizzava ognuno, ma proprio ognuno, dentro un ruolo. Per lasciarlo, dovevano “tradire” questa identità che li blindava».

Qualcosa deve accadere. In questo cammino coinvolgono personaggi del mondo della cultura, delle istituzioni, della giustizia: Valerio Onida, Luca Doninelli, ed altri ancora. Sono i Garanti - come hanno voluto chiamarli -, cioè amici in grado di sostenere e di mettere in guardia su passi falsi. Ma la decisione di andare avanti, di fare un metro in più con il tuo “nemico”, è di ciascuno. Non è semplice. Perché non è semplice stare fianco a fianco, anche in gesti normali come cucinare, fare una passeggiata insieme, giocare a calcetto con chi ha subito o arrecato il male. Adriana Faranda, ex Br, scrive: «Abbiamo già percorso molti tratti di strada insieme, abbiamo vissuto con sofferenza e fatica momenti di particolare intensità emotiva, drammatici, coinvolgenti, laceranti. Ma abbiamo vissuto anche, con gratitudine e stupore, momenti di serenità, di commozione, di conoscenza profonda, di aiuto e affetto reciproco, di gioia e intimità, di ricerca comune».
Come è stato possibile? «La nostra scommessa è stata che riscoprendo l’umanità nascosta dell’altro, che precede e segue il gesto disumano compiuto, ognuno possa uscire dal proprio ruolo. La persona che aveva fatto delle scelte che - come scrive Hannah Arendt - non si possono né punire né perdonare, a poco a poco è stata capace, pur con grande sofferenza e fatica, di riguardare quel gesto, di prenderne le distanze, di narrarsi e di narrare quello che ha fatto. In quel momento può accadere quello che forse è un piccolo miracolo: il riconoscimento reciproco». È l’incontro tra due umanità. «Si riconosce l’altro come un “io globale”, una persona non bloccata in quel fotogramma che lo ritrae mentre riversa il suo odio. Quello, per intenderci quando si parla degli anni di piombo, del ragazzo in via De Amicis a Milano con la pistola in pugno. È il riconoscimento che ogni uomo è sempre migliore della sua peggiore azione, parafrasando quanto scrive Paul Ricoeur, che abbiamo ripetuto nei nostri incontri».
Una scommessa, anzi un cammino di coinvolgimento totale. «Chiunque poteva chiamare Claudia, Guido o il sottoscritto a qualsiasi ora. Siamo stati sempre interpellabili. Certo, durante le nostre giornate assieme, bastava una parola sbagliata - e ne abbiamo sbagliate tante - ... e bisognava ricominciare tutto da capo». Ma umanamente questi sette anni sono stati un dono inaspettato, l’imprevisto montaliano di cui si legge nel libro? «Sì. Un dono a cui ancora mi sento inadeguato. Hanno smosso dentro qualcosa. Le cose più sublimi le ho sentite da chi ha sperimentato il male e ne percepisce la Responsabilità, con la maiuscola. Cioè una responsabilità non per aver commesso qualcosa, ma verso l’altro. Verso lo sguardo dell’altro. L’esperienza del male percepito così avvicina a una forma di assoluto, di un amore ricercato, desiderato».
Impossibile non pensare alle parole di papa Francesco per l’anno della Misericordia: «Si apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre, nonostante il limite del nostro peccato». «Mi colpisce molto questa frase. Alle persone abbiamo chiesto innanzitutto di guardare con occhi sinceri il “nemico”, trovare uno spazio dentro di sé per accogliere il suo sguardo. Per far questo hanno dovuto fare i conti con il rancore, la paura, il desiderio di vendetta, l’angoscia. Sì, quelle parole del Papa riassumono la nostra esperienza e quello che desidero nel mio lavoro. Ciascuno di noi in qualsiasi momento della vita può cambiare il suo sguardo. Ma qualcosa deve accadere».