Guido Guidi

Guido Guidi. Un atto devoto

Il filo d’erba, la stanza vuota e i giochi di luce della Tomba Brion. Guido Guidi, uno dei maestri della fotografia italiana si racconta. «Da qualsiasi parte guardi c’è qualcosa da vedere» (da Tracce, aprile 2014)
Luca Fiore

Guido Guidi vive in via Ronta a Ronta, in provincia di Cesena. E nonostante la via porti il nome del paesino di 1.500 anime, non è neanche la strada principale. Alla casa si arriva percorrendo un vialetto sterrato in mezzo a filari di alberi da frutto. L’auto si ferma davanti a un casolare che sembra abbandonato. Appeso al muro c’è un cartello stradale di direzione obbligatoria a destra. Tre metri più in là un altro indica a sinistra. Accanto alla porta a vetri un’altra freccia indica il campanello: «Suonare».
Schivo, timido, solitario, Guido Guidi è un personaggio atipico nel mondo della fotografia. Classe 1941, ha studiato architettura a Venezia, dove ha conosciuto l’architetto Carlo Scarpa e lo storico della fotografia Italo Zannier. Appartiene a quella generazione di fotografi che, per comodità, vengono chiamati “quelli di Viaggio in Italia”, la mostra organizzata nel 1984 da Luigi Ghirri. Insieme a lui, tra gli altri: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci e Mimmo Jodice. I fotografi del “nuovo paesaggio italiano”. Guidi non è solo un fotografo di paesaggio, ha lavorato molto anche con l’architettura. In particolare con quella del suo amato Scarpa. Ai suoi quarant’anni di carriera, in questi giorni, la Fondazione Henri Cartier-Bresson di Parigi dedica un’importante retrospettiva. Siamo andati a trovarlo e lui ci ha accolto nel suo studio, stracolmo di negativi e con le pareti coperte di appunti a matita. Sull’armadio alle sue spalle, appese con un magnete, la foto di un nipote e una fotocopia della Resurrezione di Piero della Francesca.

Nel catalogo della mostra di Parigi, Agnès Sires, la curatrice, scrive che lei vuole «portare alla luce una realtà in cambiamento che non desideriamo vedere, dove pensiamo che non ci sia niente da vedere». È così?
Io non ho le idee chiare, è per questo che fotografo. Fotografo per conoscere, per capire. Il Talmud dice che da qualsiasi parte tu guardi c’è qualcosa da vedere. Ma non lo dice solo il Talmud.

Che cosa scopre? Che cosa capisce?
Piccole cose, mai definitive. Sono comprensioni instabili: lungi da me pretendere la comprensione definitiva del mondo.

Perché cerca dove gli altri non desiderano vedere?
Non è per dispetto, lo faccio per curiosità. C’è un piacere particolare nel fotografare cose che altri non hanno ancora guardato. È prestare attenzione alle cose. Tancredi, il pittore, diceva: «Un filo d’erba contro la bomba atomica». Pasolini preferiva salvare la lucciola piuttosto che la Montedison. Entrambi sono un po’ retorici, ma è in questa logica che a me interessa il filo d’erba. Non per imitare il filo d’erba, copiandolo come un’icona. Io lo copio attraverso la macchina fotografica per riprodurlo nella sua esattezza. Quello che io compio è un atto devoto nei confronti del filo d’erba, di un paracarro, una colonna dorica o corinzia.

Perché sente il bisogno di questa devozione?
Fotografare è un atto devoto. In senso laico, nel senso che vuoi tu, ma è un atto devoto... Lalla Romano pubblicò le foto che suo padre, da dilettante, aveva fatto a sua madre, perché, diceva, testimoniavano un atto d’amore. Che poi è un atto di devozione, per dirla con Didi-Huberman, lo storico dell’arte.

In un’occasione ha detto che quando fotografa qualcosa, lei è quella cosa, come se pregasse.
Sì, è così. Agnès Sires scrive che nelle mie fotografie non c’è ironia. Per forza, come faccio a fare dell’ironia se sto pregando? Se io sono pittore sono nel pennello, se io sono fotografo sono nella macchina fotografica. Sono fuori di me. È un’iperbole, ma solo nel momento in cui sono fuori di me posso essere più vicino alle cose. Allora non posso avere ironia, perché sono dentro a ciò che riprendo. Se mi identifico, come faccio a giudicare? Sono quella cosa là. Punto e basta. Atto devoto, preghiera.

Da dove le viene questo linguaggio religioso?
Non sono cattolico praticante. Da ragazzino ero molto religioso, ma poi a scuola, gli incontri... Sono diventato un po’ agnostico, diciamo così. Però questo aspetto della religiosità, che era dentro di me, credo di averlo trasferito nell’atto del fotografare. Fotografare per me è essere nel mondo, toccare le cose, identificarmi con le cose.

Perché il gesto di devozione diventa una forma di conoscenza?
Gregorio di Nissa diceva che le idee creano idoli mentre lo stupore apre alla conoscenza. È lo stupore. È la reazione che hai davanti alle cose guardandole con quel surplus di intensità... Come il bambino che fissa e la mamma gli dice: «Perché guardi fisso? È da maleducati». Ma è quell’intensità che ti porta a conoscere.

È una conoscenza comunicabile?
Comunicare per me è secondario. Meglio: porsi il problema della comunicabilità porta fuori strada. La fotografia è un momento di conoscenza. Io fotografo in primis per me stesso. Non è elitario, per me è una necessità. Se fai ricerca non puoi anche preoccuparti della comunicazione, non c’è tempo per tutto.

Il triangolo di luce sopra l'altare della cappella della Tomba Brion

A proposito di ricerca, quelle alla Tomba Brion, il complesso funebre commissionato dai proprietari della Brionvega al suo maestro Carlo Scarpa, sono state delle vere e proprie scoperte.
Nel 1996 il Canadian Centre for Architecture mi ha commissionato un libro su Scarpa. Preparandomi ho scoperto che la critica era ferma a dove l’avevo lasciata trent’anni prima. Questo, secondo me, perché i critici di architettura sono distratti e, a volte, non vanno nemmeno a vedere le opere dal vivo. E nel caso della Tomba Brion nessun critico, prima delle mie fotografie, aveva visto i giochi di luce e di ombra in quell’edificio.

Cosa ha visto?
Uno dei fenomeni è questo: attorno a mezzogiorno nella cappella succede che il quadrato della piramide tronca sopra l’abside, proietta un parallelepipedo di luce sulla parete sinistra e, man mano che il tempo passa, si sposta sulla parete destra. Il parallelepipedo di luce, nel momento in cui è a metà tra le pareti, crea una freccia luminosa sopra l’altare. Quando l’ho visto mi sono detto: «Ma che roba è? Ma siamo pazzi?». Ho guardato l’orologio ed era l’una. Poi mi sono accorto che c’era l’ora legale e, in realtà, era mezzogiorno. Possibile che nessun critico l’avesse mai vista?

Come se lo spiega?
A quell’ora si ha appetito e la gente, anche i critici, va al ristorante. E così ci si perde il fenomeno.

E lei non va al ristorante?
Io mi porto il panino. Se ti fermi per mangiare perdi un’ora di luce. Ma è comunque strano, perché poi ho chiesto alle signore del paese che vanno a innaffiare i fiori. In dialetto veneto mi hanno risposto: «Sì, c’è la luce divina che cade...». Ma ci pensi?

Cosa voleva dire Scarpa?
La tomba è dedicata al tempo... alla morte, al cosmo. Il complesso è costruito tutto su questo sistema di frecce create dalla luce e dall’ombra. Appaiono da una parte, scompaiono, e riappaiono da un altra. È un susseguirsi di rimandi. Bisognerebbe stare lì giorno e notte, vederla nelle diverse stagioni. Scarpa non può aver previsto tutto, ma è anche questa la sua grandezza.

Lì ha fotografato la luce, come per Preganziol, il libro con le immagini di una stanza vuota. Aveva in mente le cattedrali di Rouen di Monet?
Anche, ma soprattutto le predelle di Paolo Uccello a Urbino. La questione vera è il rapporto tra spazio e tempo. Per gli architetti del Rinascimento le due cose vanno a braccetto. Brunelleschi era un costruttore di orologi meccanici, ad esempio. Lì volevo essere più uno scienziato dello spazio che un poeta dello spazio: volevo misurarlo visivamente, ma dar conto anche del tempo che passa. In senso fisico, non metafisico. Cercavo una stanza cubica in cui provare una nuova macchina che mi era costata un occhio della testa. Avevo bisogno di uno spazio adatto a quello strumento. L’ho trovato in un parco ai margini di una villa palladiana vicino a Treviso. Capitai lì per caso. Ho montato il cavalletto e ho incominciato a scattare seguendo il procedere, da una parete all’altra, della luce che entrava dalla finestra.

Cosa cercava?
Cercavo di fare una buona fotografia, non una bella fotografia... Altrimenti è come se pregando cercassi di fare una bella preghiera... Se vuoi che la preghiera sia efficace devi essere intenso. Se no preghi per farti vedere e allora sei un chierico, un fariseo. Cercavo di descrivere esattamente. Non ho intenzioni, perché tu sai bene che - soprattutto nella cultura zen - l’intenzione è da abolire. Hai mai letto Jiddu Krishnamurti?

No.
Il problema del vivere, del raggiungimento della felicità, che poi non esiste, è quella di abolire l’intenzione.

L’inesistenza della felicità è un presupposto?
Ma no, è chiaro che tutti desideriamo essere felici, vivere meglio. Ma come si fa a vivere? Io non lo so.