Uomini vivi

UCRAINA - REPORTAGE
Luca Fiore

Siamo stati a Piazza Maidan. Dove la storia ha iniziato a correre. Dopo le manifestazioni, la guerriglia, i morti, il Paese sta cambiando volto. Ma le persone che abbiamo incontrato erano già cambiate prima. Ecco perché

Fiamme, sangue sul selciato, cadaveri. Le immagini di violenza non sono le sole a raccontare la rivoluzione in Ucraina. Ce ne sono almeno due che aprono uno squarcio nella cronaca delle battaglie. La prima è del 18 febbraio. Lui cammina con gli occhi bassi. Il sacerdote, colbacco e stola bianca, lo conduce per mano. Nell’altra regge un crocifisso, quasi si facesse largo con quello. L’omone è il primo della fila di berkut, i poliziotti dei reparti speciali, presi prigionieri durante gli scontri nel centro di Kiev. Mentre i cecchini del presidente Viktor Yanukovic sparano sui ribelli, a poche centinaia di metri, il corteo passa attraverso un cordone di volontari che proteggono i nemici da un possibile linciaggio. La seconda è del giorno dopo. Yanukovic ha appena ritirato la polizia dalle strade della capitale e ha stretto l’accordo, poi saltato, con l’opposizione per le elezioni a novembre. La tv ucraina intervista i giovani della Piazza per chiedere cosa pensano di quel compromesso. Vengono intervistate due ragazze che stanno pulendo i pavimenti del Centro congressi in piazza Europa, uno degli edifici appena sgomberati dalla polizia. Il Paese è nel caos e i giovani puliscono i pavimenti. Perché?
In Ucraina, nell’ultimo mese, la storia ha iniziato a correre. Le manifestazioni, iniziate a novembre contro il dietrofront del Presidente sulla firma degli accordi economici con l’Unione Europea, si erano trasformate nella protesta contro l’uso della forza da parte della polizia e la deriva dittatoriale del Paese. Dopo il tentativo di sgomberare le strade l’11 novembre, dopo la costruzione delle barricate attorno a Piazza Maidan, gli scontri del 20 gennaio e la battaglia del 18 e 19 febbraio, l’Ucraina ha un Presidente ad interim, un nuovo Governo e nuove elezioni previste per il 25 maggio. Sul campo di battaglia hanno perso la vita oltre cento persone. Soprattutto manifestanti, ma anche poliziotti. Si è combattuto prima con lacrimogeni e pietre. Poi con proiettili e molotov. Lo shock del bollettino di guerra ha accelerato gli eventi. Ma il popolo di Piazza Maidan non ha tolto le tende. Non si fida dei leader dell’opposizione, neanche di Yulia Timoshenko liberata dopo la caduta di Yanukovic, perché l’obiettivo non è mai stato appena il cambio ai vertici della politica, ma il rinnovamento della società, dalle sue radici. Oggi il Paese vive nell’incertezza. Le province orientali, tradizionalmente filorusse, guardano con sospetto quanto accaduto. Nei porti della Crimea sono ormeggiate le navi da guerra russe.

Preghiera o vendetta. Siamo stati a Piazza Maidan a metà febbraio. Kiev viveva una calma che, col senno di poi, appare irreale. Eravamo arrivati con una valigia di perplessità e domande: che ne sarebbe stato di quell’entusiasmo? Dove sarebbe arrivata la protesta? Sarebbe finito tutto in nulla, come con la Rivoluzione arancione? A Kiev abbiamo visto gli elmetti e i bastoni, le barricate di sacchi di neve e filo spinato. Ma anche molto altro, che allora era impossibile vedere dall’Italia. Ad alcune domande abbiamo avuto risposta. Altre si sono acuite. Abbiamo visto uomini di Chiesa assistere i bisognosi e lavorare per la pace. Abbiamo visto una società provare a rinascere da zero. Quelle immagini, del corteo dei berkut prigionieri e delle ragazze che puliscono i pavimenti, non sono casuali. E danno ragione di molto di quello che sta accadendo a Kiev.
Alex Sigov ha passato giornate ad assistere ai processi dei manifestanti arrestati. Ventinove anni, un dottorato di Filosofia in corso e un posto in una casa editrice, di giorno continua a fare la sua vita, ma nel tempo libero, anziché riposarsi, fa la rivoluzione. In Piazza ha visto un uomo accanto a lui perdere un occhio e un altro morire colpito da un proiettile. Ha accompagnato all’obitorio il corpo di un collega dell’Università cattolica di Leopoli. Ha cercato di convincere i berkut a ribellarsi agli ordini, passato la notte a cercare amici di cui non si avevano notizie, visitato «la Versailles ucraina» del Presidente deposto. Fa fatica a raccogliere le idee e mettere a fuoco quel che è successo in battaglia. «Siamo in lutto, oggi la preghiera è l’unica possibilità di evitare la vendetta. È l’unica cosa che ci unisce nel dolore».
Per entrare in Piazza Maidan, il centro della città, bisogna attraversare i posti di blocco presidiati dai ribelli in mimetica e passamontagna. L’anello di barricate che chiude il centro di Kiev è una membrana semimpermeabile attraverso cui tutti possono passare, a parte i famigerati berkut quando ancora presidiavano i palazzi del potere. Erano loro il simbolo della violenza dello Stato post-sovietico.
L’epicentro della cittadella è il palco, dove a qualsiasi ora c’è qualcuno che prende la parola o si esibisce in canti tradizionali o patriottici. Attorno, una distesa di tende verde militare, dalle quali spunta il camino delle stufe a legna. L’inverno di Kiev non scherza e la rivoluzione continua anche a venti gradi sottozero. C’è chi prepara da mangiare, chi offre vestiti, chi passeggia. L’accampamento sembra frequentato da vecchi e gente di mezza età. I giovani non ci sono perché, a Maidan, hanno altro da fare.

Il fuoco. Siamo entrati in alcuni palazzi occupati, il Municipio, la Casa dei sindacati e il Palazzo dei congressi, ed era tutto un formicolare di gente sotto i trent’anni. Il Palazzo dei congressi è stato ribattezzato “Casa Ucraina”. Ci accompagna Yulia, una ragazza di 25 anni in tuta mimetica. Occhi azzurri e trecce rosse, faccia da bambina e sguardo da dobermann. Quando non è a Maidan, lavora come art director. Visitiamo la biblioteca, l’infermeria, la mensa, i dormitori e il guardaroba. A “Casa Ucraina” c’è, tra le altre cose, la sede della Libera università di Maidan, nella quale insegnano i più importanti professori dell’Ucraina. L’impressione è quella di una città post-apocalittica. Un po’ Mad Max, un po’ La Strada. Soltanto che tutto sembra nascere per custodire il fuoco, per dirla con McCarthy. Che stia accadendo qualcosa di strano è confermato dalla presenza, nella tendopoli, delle barbe di diversi sacerdoti. All’ombra della statua dell’indipendenza, che dà il nome alla Piazza, c’era una tenda-cappella sorta spontaneamente all’inizio di dicembre. Era stata allestita dai greco-cattolici, ma serviva tutta la popolazione di Maidan. Vi si sono svolte diverse liturgie ecumeniche. A qualsiasi ora si trovava gente a pregare. L’iconostasi in compensato reggeva due icone alte un metro e mezzo. Nell’angolo opposto, sotto una foto di papa Francesco, c’era una branda dove spesso qualcuno si riposava. Il 18 febbraio è bruciata nel rogo scoppiato all’avanzare dei berkut. Qualcuno è riuscito a salvare l’icona del Cristo. Oggi la tenda è stata ricostruita e, tutti i giorni, qualche sacerdote dice la messa. A Piazza Maidan si sono celebrati matrimoni e battesimi, perché qualcuno vivendo nell’accampamento o sconvolto dagli scontri ha finito per scoprire la fede. Padre Mychajlo ogni mattina scrive un’omelia dalla piazza e la pubblica su Facebook e spesso avverte: «Il male è anche in noi. Dobbiamo pregare e restare umili».

Un reload della società. Per i sacerdoti cattolici è più facile stare accanto ai manifestanti, perché i loro fedeli sono soprattutto ucraini dell’Ovest, nei quali i sentimenti filoeuropei sono radicati da secoli. Insieme a loro ci sono i preti del Patriarcato di Kiev e quelli della Chiesa autocefala che segue il Patriarcato di Costantinopoli. Più in imbarazzo sono le autorità del Patriarcato di Mosca, che vedono la propria gente in entrambi gli schieramenti. Ma quando è stato necessario, hanno contribuito alla pace in modo decisivo. Padre Gheorgij Kobalenko, portavoce del Patriarcato di Mosca, è stato svegliato all’alba del 20 gennaio dai giornalisti che chiedevano dei tre monaci che si stavano frapponendo tra berkut e manifestanti sulla via Grushevski. «Erano padre Gabriel, Melkisedek e Efrem che, di loro iniziativa, armati di icone e croci, sono andati a fermare la violenza a venti sotto zero», racconta padre Nicolaij Danilevic: «A un certo punto, con padre Gheorgij ho preso il loro posto perché rischiavano di assiderare».
In quel momento la Chiesa è diventata per tutti una presenza. Quegli uomini infreddoliti avrebbero potuto essere spazzati via in un attimo. Invece hanno aperto una prospettiva, un punto di fuga tra le barricate. E per 22 ore è stata tregua. Padre Nicolaij, ha avuto paura? «No, lì mi sono sentito uno strumento di Dio. Il luogo della Chiesa è quello: nel mezzo della battaglia per portare la pace». La stessa cosa è accaduta dopo, quando la Cattedrale di San Michele ha ospitato un ospedale da campo. O padre Mychajlo si è trovato a confessare un ragazzo in piena battaglia.
A Maidan si impara una cosa: la nuova Ucraina non è nei proclami dei leader politici che hanno sostituito quelli del regime di Yanukovic. Si legge sui volti della gente comune. Dei ragazzi e delle babuske. Loro sono cambiati prima della caduta del regime. Masha, 23 anni, capelli biondi corti, occhi curiosi, ci aspetta da qualche minuto al centro di Piazza Maidan. «Non è meraviglioso?». Cosa? «Tutto questo. È una città che vive da sé. Qui si respira un’aria di fiducia reciproca a cui non ero abituata». Veronika studia alla Business School dell’Università cattolica di Leopoli, da sociologa osserva che in Piazza ci sono anche i manager (come l’ad di Microsoft che ha preso le ferie per fare la rivoluzione) e che il desiderio è quello di «fare un reload della società». Ripartire da lì, dall’esperienza di comunità fatta come volontari in questi mesi. Per Constantin Sigov, professore di Filosofia e direttore della casa editrice Duch i Litera, l’Ucraina di domani non sarà più come prima: «A Maidan sta nascendo la società civile che non era mai esistita. I professionisti che prestano il loro servizio qui in Piazza, come i medici, riscoprono l’autentico ethos della loro professione. Tornati a casa si ricorderanno questo modo nuovo di vivere. Qui c’è il seme di una nuova società».

Nata a Maidan. Alex ci ha fatto conoscere Lisa, che molti considerano uno dei simboli della rivolta. È una ragazza di 27 anni, nata con i polsi bloccati a 90 gradi. Dai primi giorni vive 24 ore al giorno in Piazza. Ha passato due mesi nelle cucine a tagliare limoni per il té. «Qui ho scoperto di amare il mio Paese, desidero che sia libero. Se uno ama qualcosa, riesce a passare le giornate anche tagliando limoni», dice. Aveva abbandonato la scuola alle superiori e in questi mesi ha deciso che vuole riprendere in mano la sua vita e mettersi a studiare, ma le mancavano i soldi per pagarsi la scuola serale. Un’azienda farmaceutica, avendo letto di lei sui giornali, le ha offerto un lavoro. «Le hanno detto che poteva iniziare da subito», racconta Alex: «Ma lei ha risposto: no, resto qui fino alla fine».
Lisa ha perso tutto ciò che aveva nel rogo della Casa dei sindacati, la sera del 18 febbraio. Alex e i suoi amici hanno fatto una colletta per ricomprarle vestiti ed effetti personali. Ha promesso, a chi insisteva che lasciasse la Piazza, che inizierà il lavoro dopo le nuove elezioni. Lisa vuole una nuova Ucraina e, comunque andrà, per lei una cosa è certa: «La vittoria, per noi, è già quella di esserci risvegliati».
Vestita con la mimetica e gli anfibi, Lisa sembra a tratti parlare per slogan. Le risposte si aprono in sprazzi di autenticità, ma se non si scava un po’, ti chiedi quanto stia recitando una parte. «Se fosse qualcun altro potresti avere ragione», spiega Alex: «Ma lei è così. Lei è nata a Maidan, prima non era nulla. La sua identità è sbocciata qui. Per questo è il nostro simbolo».
Oggi i ragazzi di Piazza Maidan sono travolti da quanto accaduto. Hanno negli occhi i volti dei compagni morti e nelle orecchie le promesse dei politici di cui non si fidano. Chi da tre mesi vive in Piazza, vede avvicinarsi la fine dell’esperienza più travolgente della propria vita. E poi? Hanno cacciato il dittatore, ma non ancora ottenuto quel che volevano. La nuova Ucraina, chiunque sarà a governarla, non si costruirà più in Piazza. I vizi della società post-sovietica si possono vincere soltanto portando Piazza Maidan a casa propria. E continuare a vivere in modo diverso. Il cuore di Kiev si è coperto di una distesa di fiori. È l’omaggio «agli eroi».
«Siamo solo all’inizio di un lungo processo. Non sappiamo quanto tempo ci vorrà», dice Alex: «Ma è un nostro dovere. Lo dobbiamo a chi è morto».