Claire Ly

Claire Ly. La pietra tolta dal mio sepolcro

Sopravvissuta ai campi di lavoro forzato del regime di Pol Pot, l’ex intellettuale buddhista Claire Ly racconta la conversione al cattolicesimo. Il legame con un Dio che ha fatto irruzione nel silenzio della prigionia (da Tracce, febbraio 2013)
Alessandra Stoppa

«Guardami. Sono stata brava. Devi applaudirmi». La sera, nella luce fioca del camerone, parla sempre e solo con lui. Il suo nemico. Gli ha anche dato un nome: “il Dio degli occidentali”. Non esiste, è solo l’oggetto mentale su cui concentrarsi: da seria intellettuale buddhista lo ha scelto per scaricare la rabbia e l’angoscia. Per non morire di dolore. E per non tradire la coerenza della via di mezzo che conduce al nirvana. «Nel buddhismo non si possono provare sentimenti negativi. E Lui era l’unico a cui potevo dire cosa stavo vivendo». Prigioniera della violenza di un killing field, i campi di lavoro forzato creati dal regime di Pol Pot per realizzare l’utopia comunista.
È il 1977, Claire Ly è stata deportata da due anni. Dal 17 aprile del ’75, giorno in cui vede i Khmer Rossi, guerriglieri della rivoluzione, fucilare il padre, il marito, due fratelli e il suocero. Non le lasciano il tempo di accarezzarli, deve iniziare a camminare, verso le campagne, con un figlio di tre anni per mano, una in grembo e la pistola alla testa. Insieme a migliaia di altre donne, borghesi come lei, abituate alla vita in città ed ora costrette a lavorare nei campi paludosi. Sveglia alle quattro, in fila indiana per non parlare:?tutto il giorno chine su riso e acqua, la sera ai corsi di rieducazione politica. Se sbagli a rispondere, un colpo alla nuca. Tante finiscono per ammalarsi. Claire no. Allora sfida quel Dio immaginario: «Hai visto? Sono una donna forte: ero un’intellettuale, e ora eccomi contadina. Io sono buddhista. Per cui aspetterò. Finché non ti sentirò applaudire».
E Lui? «Lui non ha mai applaudito!», scoppia in una risata da bambina oggi, quarantacinque anni dopo: «Ma in quel silenzio, ho saputo che Lui c’era».

«Io ci sono!». Insegna all’Istituto di Scienze e Teologia delle religioni di Marsiglia, vive in Francia dal 1980, sopravvissuta a quattro anni di regime e prigionia che hanno sterminato due milioni di cambogiani. Quattro anni di omicidi sommari e fosse comuni, e per lei di dialogo con un Dio che era un colpevole perfetto: «Perché il marxismo è nato in Occidente e perché io avevo bisogno di qualcosa di molto grande su cui sfogarmi. Mi stavano togliendo l’identità». Strappata dagli amori, spogliata di ciò che era, anche nell’aspetto - la divisa, i capelli rasati -, costretta ad allattare i bambini delle altre perché «figli del regime» e a non pronunciare il nome dei suoi:?solo figlio e figlia. Ma in quell’atto di follia, che stava annientando ogni tratto umano, lei non smetteva di avere un bisogno: «Mi veniva da gridare: io ci sono!». In quel vortice di indottrinamento e morte, pretendeva di esistere. Non poteva accettare la logica che giustificava quello che stava accadendo, il karma, per cui il male è l’espiazione delle colpe di vite passate: «Non era possibile che chi amavo fosse stato ucciso per i suoi peccati».
È così che inizia a gridarlo al “Dio degli occidentali”: «Per due anni l’ho insultato, senza preoccuparmi della sua esistenza. Ma questo ha creato uno spazio tra me e Lui». Uno spazio «necessario», dice, «così diverso dalla divinità che ingloba tutto». Racconta ciò che da lì è iniziato come un grande mistero, d’amore. «È così. In un amore ringrazi sempre di essere amata e lasci all’altro il potere che ti ferisca. Io ho cominciato a lasciare a Dio di farmi anche male, di non rispondere. Senza che lo sapessi, di colpo siamo stati liberi in due». Che cosa fossero quel rapporto e quella libertà lo avrebbe capito solo nel tempo.
Prima che esplodesse l’inferno, Claire viveva a Phnom Penh, la capitale. «Dopo aver insegnato Filosofia, sono diventata capodipartimento al Ministero dell’Istruzione». È una donna delicata. È stata dentro la bruttura più feroce ma non ce l’ha per niente addosso. Non le ha appartenuto. «L’ideologia aveva violentato alla radice il buddhismo theravada, e massacrato i maestri spirituali». Aveva plasmato i carnefici e le vittime dentro lo stesso popolo, lo stesso sangue, la stessa religione. La sua terra era senz’anima. E lei ha deciso di partire subito con i due figli. E con una «pace intima», che l’aveva accompagnata in tutto. «Ma non avevo ancora capito che non era mia».

Due motivi. Prende la strada dei profughi verso la Thailandia e da lì, nel 1980, emigra in Francia. Una delle prime cose in cui s’imbatte, nei nuovi studi, è un’enciclica di Giovanni Paolo II, la Dives in Misericordia. «L’ho letta e, da filosofa, volevo verificarne la coerenza. Così sono andata da un prete che mi aveva aiutata appena arrivata e gli ho chiesto una copia del Vangelo. Ho iniziato a leggerlo». La figura di Gesù la affascina da subito. «Quell’uomo soffriva, piangeva. Era come me. Conosceva la mia esperienza. Buddha è un uomo, ma talmente perfetto da non avere nulla di umano». Comunque Gesù rimaneva solo un maestro, e lei una donna che lo ascoltava. «È stata la frequentazione con Lui, con la sua umanità, a portarmi a credere». Un giorno, partecipando ad una messa, ha sentito chiaramente che Cristo le diceva: “È da tempo che cammino con te, ma non volevi riconoscermi”. «Lì mi sono accorta che quella pace mi era stata accordata da un Altro. E ho deciso di seguirlo». Riceve il Battesimo il 24 aprile del 1983, a trentasette anni.
Dice che il cristianesimo l’ha sedotta per due motivi. «È un Dio che entra nella mia vita». E, poi, custodisce la libertà. «È la mia grandezza umana: la mia risposta libera e ragionevole all’appello di Cristo. Libera anche di non fare la volontà di Dio. Come Lui lo è di non fare la mia...», sorride. Si emoziona quando parla del paradosso di questo rapporto. È una «rottura», che non l’ha spezzata. E una scelta «ragionevole» di accettare una follia: «Perché la Risurrezione è una follia. Ma senza di essa, la mia fede è vana. È una follia che mi fa usare tutto il mio cuore e tutta la mia testa».
Una cosa aiuta la certezza: «La mia ferita». Pensi a tutto ciò che ha vissuto, alle immagini del film Urla del silenzio che ti mostra al computer. «Io sono stata ferita da un amore». Non sta parlando di quel che pensi: «La mia fede è una certezza ferita. Non è chiusa, compiuta. No. Apre tutto il mio essere a Dio, che mi precede sempre e non possiedo». La diverte che in francese si dica, come in italiano: ho la fede. «Non è un bene che possediamo!», ride. Poi torna seria: «È la pietra tolta dal mio sepolcro». Un amore che è arrivato a scrutarla nella sua rabbia, «la mia vera prigione», e a sconvolgere la coerenza buddhista, «perché mi permette di amarmi come sono, così imperfetta, così rotta, nel profondo. E mi fa amare il mondo così com’è, non come vorrei che fosse».
Ha anche trovato le parole per dire quel grido che aveva, quella pretesa di esserci mentre tutto veniva negato: «Il non è un’illusione. Io esisto realmente. Non sono una particella del tutto metafisico:?sono unica, incisa per sempre nel cuore del mio Dio. Per questo sono integra, e irriducibile a ciò che faccio». Ripensi all’identità che le è stata strappata. Non gliel’hanno ridata il tempo o i tribunali internazionali: «Ogni giorno esisto pienamente solo quando sono in relazione con Dio. La mia identità è in divenire».

Non è un’idea. In Cambogia ci è tornata per la prima volta nel 2003. «Desidero rendere conto della speranza che mi abita in quella cultura scolpita dal buddhismo». Come ne era scolpita lei. «La conversione è stata una rottura totale per me, ma non un salto nel vuoto. È una strada: dall’umanità di Cristo alla sua divinità. Da buddhista ho creduto al mistero dell’Incarnazione con tutta la mia ragione. Anche se non è un atto del pensiero ordinario, un ragionamento». Il male - «quello vero», precisa - è qualcosa che azzera ogni discorso intellettuale: «E la risposta, la fede, non è un’idea, è sperimentare una forza di vita in me che non è mia».
Parla sempre della fede come un cammino. «Non è una pioggia torrenziale, di qualche ora. È un filo d’acqua, che penetra i crepacci del mio deserto. Una pienezza fin dentro la mancanza». Nel buddhismo la felicità è un getto d’acqua: le mani cercano di afferrarla, ma scivola tra le dita e cadendo a terra diventa fango. «È vero», dice Claire: «Non si afferra. Ma nel cristianesimo l’acqua non smette mai di sgorgare. E l’avventura è non chiudere le mani. Tenerle aperte. Seguiamo Gesù che ha aperto il cammino, ed è il nostro compagno di lotta nella vita. Perché la strada non ha fine. E un cuore ardente la riprende di continuo. Non può che riprenderla, sempre».