Tracce

Tracce n.4, Aprile 2024

Il fine della vita
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Come troverete ben raccontato dal filosofo Francesco Botturi in apertura di numero, il posto dato a chi soffre – e quindi alla cura della vita anche nelle condizioni più difficili – misura la statura di una civiltà: l’attuale paradigma tecnocratico ha trasformato ogni situazione «in un “problema” da risolvere, piuttosto che affrontarlo come un enigma a cui rispondere». Ma il dolore, la malattia, la morte contestano questo appiattimento, e mettono alla prova «il desiderio che abita il cuore dell’uomo» che la vita abbia senso e non abbia fine.
Le questioni scientifiche, etiche, legislative e politiche che frammentano uno dei dibattiti più drammatici del nostro tempo, quello sul “fine vita”, devono fare i conti con l’esperienza, singola, irripetibile, dei malati, dei familiari, di chi li cura. Che non ammette astrazioni. Soprattutto quando ci si trova di fronte alla richiesta di un paziente di mettere fine alla propria condizione. «Dietro al desiderio della morte, c’è il sentimento dell’inutilità, dell’impossibilità a trovare un significato al dolore», come ha detto di recente Davide Prosperi a un serie di incontri con medici, infermieri, bioeticisti, giuristi, che quotidianamente hanno a che fare con questi temi e si confrontano per giudicare tutti i fattori in gioco. «Le scelte mediche, assistenziali, e anche giuridiche», ha continuato Prosperi, «toccano un bisogno di utilità della vita che non può trovare risposta in esse. Cristo non ha tolto il deserto, si è fatto compagno del cammino nel deserto. Si tratta di un giudizio che si fonda su una tradizione, una visione della vita della quale siamo responsabili nel saperla offrire all’uomo di oggi dandone ragione a partire dall’esperienza».

Come frutto di quel lavoro insieme, nel Primo Piano raccontiamo una presenza che si fa compagnia, attraverso chi vive in prima persona situazioni di sofferenza e malattia, anche inguaribile. Emerge una rivoluzione, per lo più nascosta, che avviene ogni giorno, nelle case e nelle stanze d’ospedale, silenziosa ma capace di incrinare qualsiasi ideologia che, per eliminare la sofferenza, toglie umanità. «Ed è quello che nel segreto desideriamo», disse in contropiede il cardinale Ratzinger nel 1978: «Sì, essere uomini ci è troppo pesante». Ma: «Dio non ci ha tolto la nostra umanità, la condivide con noi».
È la cura della vita, del grande mistero della persona, nella dignità di ogni suo momento, la sola che può lasciare spazio agli interrogativi, a volte atroci, o al silenzio di quello che è indicibile e sacro. Che cos’è la libertà? E il valore di una esistenza? Chi lo decide? Cosa significa onorare la vita? Fino a dove spingersi? E con la morte finisce tutto nel nulla?
Entrare nel merito delle delicatissime questioni che si aprono nel campo del “diritto a morire” è innanzitutto rispondere al problema del significato della vita. «La difficoltà più grande che ha l’uomo è accettare e riconoscere la positività del suo vivere», scriveva don Giussani: «Per questo l’eutanasia è come un simbolo, il simbolo odierno della disperazione assoluta che governa tutta la cultura dell’uomo (...). Un simbolo dell’assetto disperante della risposta che l’uomo dà al vivere». In questo numero si racconta di una paziente che, dopo tante resistenze, ha accettato la terapia da un solo medico, perché in lui aveva visto qualcuno per il quale «il problema non era non morire, ma vivere». Vivere, fino al fondo, anche gli ultimi istanti o quelli più bui. E potersi così inoltrare nel volto di quell’amore che dà la vita e il respiro, in quella compagnia originaria, più radicale di qualsiasi solitudine. Come disse lo stesso Giussani, ormai gravemente malato, a chi gli chiedeva se si sentisse solo quando soffriva molto: «Non sono mai solo, perché Cristo è il compagno indivisibile del mio io».